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CIVILE  

Ermeneutica del fine vita

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 mercoledì, 19 giugno 2019

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Evocare ricordi, interpretare il presente, scrutare il futuro[1]

di FRANCESCO D. BUSNELLI, Professore emerito alla Scuola Superiore Sant'Anna

 
 

 

Mi propongo di articolare il mio breve intervento in tre punti: evocare ricordi, interpretare il presente, scrutare il futuro.

1. - Proprio da un ricordo vorrei iniziare; il ricordo di un dialogo a distanza, purtroppo incompiuto, che avevo intrattenuto con Giorgio Oppo su temi e problemi che concernevano già, e anticipavano, gli argomenti su cui oggi siamo chiamati a discutere.

Il dialogo era iniziato in un anno particolarmente significativo: il 2007. Erano appena state pubblicate due sentenze importanti che si riferivano a casi problematici (il caso Welby[2] e il caso Englaro[3]). L’anno successivo Oppo aveva voluto benevolmente destinare al Liber amicorum a me dedicato un saggio sui “Profili giuridici dei confini artificiali imposti alla vita umana”, pubblicato sulla Rivista di diritto civile[4]. Il Maestro si interrogava in termini sofferti e pensosi: “Il tema – scriveva - tragico di per sé è reso angoscioso da episodi recenti [sono i casi a cui prima facevo riferimento], l'uomo vuole appropriarsi della fine come del principio della vita sostituendosi alla natura”[5]; e, riferendosi alla sentenza della Corte di Cassazione (n. 21748/2007) sul caso Englaro, così concludeva: “il solo pensiero è da brividi. Si legittima la progressiva estinzione di ogni forma di vita di una persona che chi la ha in cura definisce ancora bella finendo con l'ammettere l'eutanasia”[6]. Si trattava di Eluana Englaro.

La mia risposta (Problemi giuridici di fine vita tra natura e artificio”[7] fu, purtroppo, tardiva (Oppo, il 19 agosto dello stesso anno, 2008, ci aveva lasciato), ma voleva essere rassicurante.

 La motivazione della “sentenza Englaro” (relatore Alberto Giusti, valoroso allievo pisano) non dava adito a dubbi: “il rifiuto delle terapie, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia”. E la sentenza del Tribunale di Roma che chiudeva il caso Welby non esitava ad affermare che “parlare di eutanasia nel caso di specie appare del tutto fuorviante da un punto di vista del rigore concettuale e della comprensione dei fatti.”

Rassicurato da queste sentenze, con la mia risposta osavo parlare del “vuoto normativo che tale non è”[8].

Perché mi esprimevo in questo senso? La vera ragione - lo confesso - era la scarsa fiducia in un Parlamento rissoso di cui non conoscevamo bene i possibili esiti legislativi

 

2. La legge 219/2017 è in grado di smentire queste preoccupazioni? E’ una “buona legge”? La risposta cambia a seconda che l’interpretazione abbia ad oggetto i primi tre articoli ovvero gli articoli 4 e 5.

A) Nel primo caso la risposta, a mio avviso, può dirsi affermativa: ai primi tre articoli (e, forse, all’art. 5) va riconosciuto il merito di avere recepito gli indirizzi giurisprudenziali appena menzionati aprendosi anche alle più significative esperienze legislative europee.

La sintesi definitoria con cui la legge intende dettare “norme in materia di consenso informato” si rivela all’interprete una formula (parzialmente) mentitoria. In realtà, quella che “viene promossa e valorizzata” è la “relazione di cura” (art. 1, comma 2)..

E’, questa, una svolta importante che riprende e sviluppa un orientamento già tracciato dalla legge n. 38/2010 sulle “cure palliative”, definite come “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti” (art. 2, lett. a).

Prendendo in prestito un’immagine cara a Paolo Grossi, il “consenso informato” è un punto, una volontà “puntiforme” che si esaurisce ed esaurisce con sé, in un unico istante, ogni possibilità di espressione (P. Zatti); la relazione di cura è una linea, lungo la quale si svolge , e si evolve, la volontà del paziente, assunta non come punto di partenza, ma come punto di arrivo. Nessuna traccia del consenso informato è dato rinvenire nei principi costituzionali, che legano la tutela della salute alla dignità e alla liberà della persona. Più che all’autodeterminazione – vocabolo relativamente nuovo, dal forte accento anglosassone che lo rende per molti aspetti estraneo alla nostra cultura - la nostra Costituzione presta attenzione alla non imposizione di un trattamento sanitario, quasi che la garanzia dei valori fondamentali che si legano alla persona umana debba seguire la via del rispetto piuttosto che quella del consenso (V. Calderai).

Muovendosi in questa direzione, la nostra legge arricchisce i contenuti della relazione di cura mutuando dalla francese Loi Leonetti (Loi n. 2005-370, art. 1) il principio che impone al medico di “astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati” (art. 2, comma 2) e, aggiungendo un riferimento essenziale al vincolo della “fiducia”, che deve anzitutto caratterizzare la relazione di cura (art. 1, comma 2), consentire poi al paziente di incaricare, se lo vuole, “una persona di sua fiducia di esprimere il consenso in sua vece” (art. 1, comma 3), legittimarlo infine (art. 4, comm1) a indicare, in sede di redazione di “disposizioni anticipate di trattamento”, un vero e proprio “fiduciario” (in analogia alla figura del Betreuer, introdotta nel BGB dalla legge tedesca del 2009 (Drittes Gesetz zur Änderung des Betreuungsrechts) che “faccia le veci [del paziente] e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie” .

Inoltre, ponendo fine a una lunga stagione divisiva della dottrina, la legge ha letteralmente tradotto in una norma – art. 1, comma 5 - l’assunto categoricamente formulato dalla Corte di cassazione a proposito del “caso Englaro”, secondo cui “non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino naso gastrico costituiscono un trattamento sanitario”; e, facendo riferimento all’esperienza di interazione tra cure palliative e terapia del dolore secondo i principi dettati dalla ricordata legge in argomento, ha ritenuto di specificare che “in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore” (art. 2, comma 2).

Vanno, infine, segnalate due peculiarità che valgono ad attribuire alla legge un carattere di novità: una puntualizzazione e un silenzio-

La puntualizzazione potrebbe apparire a prima vista banale e inutile; ma nella pratica medica piò al contrario avere effetti dirompenti. Stabilire che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” (art. 1, comma 8) significa attribuire un senso preciso e una dimensione sostanziale alla relazione di cura; significa evidenziare la dignità della persona del paziente (at. 1, comma 1); significa responsabilizzare il medico (art. 1, comma 2); significa, finalmente, che -come si legge nella bella motivazione della più volte ricordata sentenza sul “caso Englaro” - “c’è spazio – nel quadro dell’alleanza terapeutica che tiene uniti il malato e il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza”.

Il silenzio è l’altra faccia di una presunta omissione consistente nella mancata previsione di una norma parallela a quella introdotta, a suo tempo, dalla legge n. 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza e avente per oggetto la disciplina dell’obiezione di coscienza da parte del medico. Due sono in teoria le possibili reazioni di fronte a questo silenzio: la prima sarebbe la denuncia di una vistosa disparità di trattamento tra due fattispecie legislative accomunate dal una condotta del medico diretta a porre fine alla vita di un essere umano; la seconda sarebbe la negazione in radice del parallelismo. Quest’ultima sembra essere l’interpretazione corretta; è l’altra faccia del silenzio, di un silenzio rassicurante, in piena coerenza con le sentenze da cui siamo partiti.

B) Si è scritto che “la disciplina prevista per le Dat costituisce la parte più significativa dell’intero dettato normativo” (S. Delle Monache). Personalmente, ho qualche dubbio.

Macchinoso e incerto appare il coordinamento tra il personalismo ispirante l’asserita libertà individuale diesprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari” (art. 4, comma 1) e le formalità della “redazione” e della “consegna” dello strumento - la DAT – (art. 4, comma 6).

A fronte di una esasperata formalizzazione di quella che assume la struttura di una vera e propria “volontà negoziale” (F.G. Pizzetti) vien fatto di chiederci se non sarebbe stato preferibile “prevedere come modalità tipica di dichiarazione delle DAT la loro ricezione da parte di un medico” (D. Carusi).

In effetti, non può non apparire paradossale che qui il paziente si possa (rectius, si debba) incontrare con notai, funzionari o strutture pubbliche ma non si preveda alcun “incontro” tra “l’autonomia decisionale del paziente e l’autonomia professionale del medico” (art. 1, comma 2). La figura del medico è richiamata dall’art. 4 soltanto al quinto comma, per stabilire sic et simpliciter che “il medico è tenuto al rispetto delle DAT”).

È sconcertante constatare come la legge si sia voluta allontanare, per malinteso scrupolo di rigore formale e di perfezionismo burocratico, nonché per uno smodato ossequio al potere di autodeterminazione del paziente, dalle leggi europee da cui pure ha preso le mosse.

La Loi Leonetti, ricalcando l’art. 9 della Convenzione di Oviedo, prevede all’art. 7 una DAT semplice ed essenziale. “Può redigerla qualsiasi persona maggiore di età indicando i desideri [souhaits] relativi al proprio fine-vita concernenti le condizioni poste in ordine alla limitazione o alla cessazione del trattamento. Il medico ne tiene conto per qualsiasi decisione di ricerca, di intervento o di trattamento concernente il paziente. Un decreto del Consiglio di Stato definisce le condizioni di validità, di confidenzialità e di conservazione delle direttive anticipate”.

La legge tedesca di modifica del BGB capovolge il rapporto tra direttiva anticipata (Patientenverfügung) e “fiduciario” (Betreuer) ravvisando nella individuazione di un fiduciario un prius rispetto all’esistenza (non necessaria: § 1901, a.4), di una direttiva anticipata, per la quale è richiesta la semplice forma scritta. Quando questa sussista, il fiduciario ha il compito di “esternare e far valere la volontà del paziente” (§ 1901, a. 1). In mancanza di direttiva, egli è tenuto a “accertare le cure mediche desiderate dal paziente o la sua volontà presunta” (§ 1901, a.2) e a partecipare con il medico- che abbia accertato quale trattamento medico sia indicato con riguardo allo stato complessivo del paziente e della prognosi – a un colloquio per discutere tale trattamento tenendo conto della volontà del paziente” (1901, b.1).

Viene alla luce, a questo punto, un ulteriore, ancor più inquietante paradosso.

Il rifiuto di inutili formalismi e di eccessi burocratici, che contraddistingue entrambe le leggi appena richiamate; la valorizzazione dei “desideri” del paziente (di cui il medico deve “tener conto”), da parte della legge francese; il riconoscimento di una responsabilità primaria al fiduciario nel partecipare al colloquio con il medico “tenendo conto” della volontà del paziente, da parte della legge tedesca, sono i segnali di un modo di intendere le “direttive anticipate” in armonia con le caratteristiche solidali della relazione di cura.

Orbene, questi segnali, clamorosamente disattesi dalla disciplina delle nostre “disposizioni anticipate di trattamento” - rivestite di formalismi e di cavilli burocratici; sensibili al mito del potere esclusivo di autodeterminazione del paziente e di una implausibile sudditanza del medico; consapevoli di aver ingabbiato la figura del fiduciario nelle maglie rigide del sistema istituzionale – trovano sorprendentemente ascolto (art. 5, comma5) nella norma che disciplina, con ben diversa apertura la “pianificazione condivisa delle cure”.

E’, questa, la vera norma “nuova” della nostra legge. Ne è prova l’affermazione del principio della condivisione come criterio-guida per la realizzazione di una pianificazione delle cure a fronte “dell’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta” (art. 5, comma 1); il conseguente richiamo ai commi 2 e 3 (e non al comma 6) dell’art. 1; il recupero, grazie a tale richiamo, della identità “fattuale” del fiduciario come “persona di fiducia” del paziente.

Ben si spiega, allora, il particolare rigore che l’art. 5 attribuisce al principio per cui “il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi alla pianificazione qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”: un rigore che non è dato riscontrare in caso di DAT, le quali “possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue” (art. 4, comma 5).

 

3.- Scrutare il futuro significa in primo luogo alimentare speranze di una rilettura armonica della legge attraverso un’interpretazione aggregante delle singole norme – in particolare, degli artt. 4 e 5 - capace di dar vita e concreta operatività a un “nuovo diritto per la relazione di cura”.

Ma il futuro (un immediato futuro: per intenderci, da oggi al prossimo 24 settembre) potrebbe indurci a riflettere su eventuali nuovi interventi legislativi suscettibili, in ipotesi, di scardinare la coerenza ermeneutica dell’auspicato “nuovo diritto”.

Evidente è il riferimento all’ordinanza della Corte costituzionale (n.207/2018) che, chiamata a pronunziarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, ha sospeso il giudizio in corso fino a quella data per valutare “l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela”. Più specificamente l’ordinanza ha inteso segnalare che “una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche a traverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte , potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima”.

Numerosi sono gli spunti di riflessione suscitati dagli argomenti addotti a sostegno di questa segnalazione.

Si tratta anzitutto di valutare se “lo spirito” della “nuova legge” è davvero dissonante dalla “legislazione oggi in vigore [che] non consente al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente … trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte”.

Occorre, più specificamente, verificare se “la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte” possa costituire una semplice “opzione” da inserire nel quadro della disciplina dettata da una legge che all’art. 1 si propone di tutelare “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”.

Val la pena, comunque, di chiarire se il concetto di “dignità” che l’ordinanza in questione identifica nella “propria visione della dignità” che il singolo individuo esprime in simbiosi con il proprio diritto all’autodeterminazione sia, o meno, rispettoso del principio costituzionale del “dover-essere della dignità” (V. Scalisi).

Rimane , poi, da capire se questa “idea di morte dignitosa” potrebbe comunque essere “imposta” al medico o se si renderebbe necessario togliere dal silenzio il principio dell’obiezione di coscienza.

Ma, soprattutto, mi chiedo se dovrei idealmente ritirare la mia risposta rassicurante a Giorgio Oppo, confessando a distanza di tempo che aveva ragione Lui quando scriveva che “si finisce con l’ammettere l’eutanasia”.

 



[1] Relazione tenuta al seminario “Fine vita tra diritto ed etica” che si è svolto il 5 giugno 2019 presso la sala Zuccari, palazzo Giustiniani. L'intervento costituisce una rielaborazione di uno scritto pubblicato sulla Rivista "Responsabilità medica" nel 2019.

[2] Trib. Roma, 23 luglio 2007.

[3] Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748.

[4] Riv. dir. civ., 2008, I, p. 371 ss.

[5] Op. cit., p. 371.

[6] Prefazione a M. Fioranelli e P. Zullino, Io, Ippocrate di Cos, Bari, 2008, p. XV.

[7] Riv. dir. civ., 2011, I, p. 153 ss. E’ il testo, aggiornato, della relazione tenuta al Convegno in memoria di Giorgio OppoUomo, persona, diritto”, svoltosi a Roma nei giorni 6-8 maggio 2010.

[8] Op. cit., p. 158.

 

 
 
 
 
 
 

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