Sommario: 1. La fattispecie concreta. - 2. L’applicabilità dei provvedimenti ex art. 709 ter, comma secondo, cod. proc. civ. all’inadempimento degli obblighi di mantenimento del figlio - 3. Formalmente amministrativa, sostanzialmente penale: la natura della sanzione ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. e l’impatto della Corte EDU - 4. L’illegittimità costituzionale della norma per violazione del ne bis in idem CEDU. - 5. Gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale: tassatività-determinatezza e ragionevolezza nel trattamento sanzionatorio. Cenni.
1. La fattispecie concreta
Nei prossimi mesi, la Corte Costituzionale sarà chiamata a valutare l’ammissibilità e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. sollevata dal Tribunale di Treviso il 30 aprile 2019, depositata il 16 luglio 2019..
La controversia al vaglio del Tribunale di Treviso sorgeva dalla proposizione di un ricorso per la cessazione degli effetti civili del matrimonio che faceva seguito alla pronuncia di separazione personale dei coniugi. Con la sentenza di separazione la figlia minore era stata affidata in via esclusiva alla madre ed era stato posto a carico del padre un assegno mensile di mantenimento in favore della figlia.
Con l’instaurazione del procedimento di divorzio, la ricorrente evidenziava che il padre era rimasto inadempiente agli obblighi posti a suo carico dalla sentenza di separazione, non avendo versato con regolarità l’assegno di mantenimento, e domandava, per tale ragione, la condanna dello stesso al pagamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ.
A sostegno della propria richiesta, la ricorrente evidenziava, peraltro, che il Tribunale di Treviso in sede penale aveva già accertato la responsabilità del resistente ex art. 570 cod. pen. per aver omesso di versare il contributo al mantenimento della figlia nella misura di cui alla sentenza di separazione.
Il resistente, tuttavia, si opponeva all’accoglimento della domanda art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. evidenziando che con la condanna ex art. 570 cod. pen. il Tribunale si era già pronunciato sui medesimi fatti.
Il Tribunale sollevava pertanto questione di legittimità costituzionale per contrasto dell’art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. con riferimento agli artt. 3, 25, comma secondo, e 117, comma primo, della Costituzione.
In attesa della decisione della Consulta, l’ordinanza che si annota appare meritevole di approfondimento in considerazione della complessità delle questioni di diritto dalla stessa affrontate e, in particolare, del delicato intrecciarsi fra profili di natura civilistica, penalistica e amministrativistica.
Il nucleo stesso della questione di legittimità costituzionale, come si avrà modo di dimostrare, risiede nella tensione fra approccio formale e sostanziale nella determinazione della natura giuridica di una sanzione, ed è in questo contesto che risultano decisivi gli approdi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo più volte richiamati dal Giudice a quo a fondamento del proprio convincimento.
Con il presente articolo, si intende approfondire la rilevanza e l’impatto della giurisprudenza della Corte EDU ai fini della prospettata questione di legittimità costituzionale e, in particolare, della allegata violazione del principio del ne bis in idem, mentre solo brevi cenni saranno dedicati agli ulteriori profili di incostituzionalità individuati dal Giudice rimettente.
2. L’applicabilità dei provvedimenti ex art. 709 ter, comma secondo, cod. proc. civ. all’inadempimento degli obblighi di mantenimento del figlio ex art. 147 cod. civ.
Preliminarmente, appare opportuno rilevare che l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Treviso dipende, in primo luogo, dall’ampiezza dell’ambito di applicazione dell’art. 709 ter, comma secondo, cod. proc. civ.
Infatti, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale costituisce un presupposto fondamentale per l’ammissibilità della stessa, secondo il disposto di cui all’art. 23, comma secondo, l. 11 marzo 1953, n. 87 (il quale richiede, in particolare, che “il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione[1]”).
Pertanto, occorre innanzitutto verificare se il mancato adempimento agli obblighi di mantenimento del figlio ex art. 147 cod. civ. integri la fattispecie di cui all’art. 709 ter, comma secondo, cod. proc. civ. nella parte in cui sanziona gli “atti che comunque arrechino pregiudizio al minore”.
La risposta al quesito di diritto così delineato è tutt’altro che pacifica in giurisprudenza[2]; tuttavia, appaiono condivisibili le argomentazioni addotte dal Tribunale di Treviso a sostegno della soluzione affermativa.
Infatti, la formula “atti che comunque arrechino pregiudizio al minore” si dimostra già nel dato letterale idonea a ricomprendere un “pregiudizio obiettivamente riscontrabile e determinabile quale quello derivante dalla mancata contribuzione economica in favore del minore[3]”.
Tale conclusione risulta rafforzata da un’interpretazione teleologica della norma, che tiene conto della preminenza dell’interesse del minore nei procedimenti di famiglia[4], e trova infine conforto nei lavori preparatori della disposizione in esame[5].
3. Formalmente amministrativa, sostanzialmente penale: la natura della sanzione ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. e l’impatto della Corte EDU
Maggiore spazio deve essere a questo punto dedicato alla questione di diritto che costituisce il cuore dell’ordinanza annotata, ossia la natura giuridica della sanzione testualmente “amministrativa” di cui all’art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ.
Il Giudice a quo, nel giungere alla conclusione che tale sanzione debba essere qualificata come sostanzialmente penale e, pertanto, assoggettata alle garanzie e ai principi penalistici, si pone infatti nel solco di una più ampia tendenza che ha visto l’influsso, sul diritto amministrativo e penale nazionale, di fonti di natura sovranazionale e internazionale.
In dottrina, è stato evidenziato come tali settori del diritto, un tempo ritenuti stretta prerogativa del legislatore nazionale in quanto diretta espressione del potere pubblicistico dello Stato, abbiano subito un costante processo di modificazione ad opera di fonti “esterne”, fra le quali spiccano, per impatto e per rilevanza, il diritto dell’Unione Europea e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[6].
Soffermandosi sulla CEDU, la quale assume importanza centrale nell’ordinanza annotata, occorre innanzitutto premettere brevi cenni circa la natura della Convenzione e la sua collocazione nel panorama delle fonti del diritto.
Quanto alla prima questione, deve essere rilevato che, secondo l’impostazione tradizionale e di recente ribadita dalla Corte Costituzionale, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo costituisce una fonte di diritto internazionale pattizio, ancorché di natura peculiare[7].
Infatti, nonostante la CEDU si occupi di una materia delicata quale è la protezione dei diritti umani e si caratterizzi, peraltro, rispetto ai tradizionali organismi di diritto internazionale per l’esistenza di una Corte in grado di vincolare in una certa misura gli Stati Membri del Consiglio d’Europa alla sua osservanza, il diritto convenzionale risulta pur sempre inidoneo ad attribuire diritti in capo agli individui e, quindi, ad essere direttamente applicato dal giudice nazionale[8].
All’indomani del Trattato di Lisbona[9], è stato talora sostenuto, in dottrina e in giurisprudenza, che la CEDU sia al contrario entrata a far parte del diritto dell’Unione Europea per il tramite dell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea[10].
La norma citata, nella sua versione attuale, sancisce infatti l’adesione dell’UE alla CEDU e specifica, peraltro, che “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
Tale impostazione, tuttavia, secondo l’opinione largamente prevalente, è in realtà frutto di un equivoco. Il nuovo art. 6 del Trattato, infatti, non comporta l’equiparazione del diritto convenzionale al diritto eurounitario, bensì la mera adesione, da parte dell’Unione Europea, ai principi generali della CEDU nelle materie di propria competenza[11], sicché rimane invariato lo status della Convenzione quale fonte internazionale pattizia.
Corollario immediato di tale approdo interpretativo maggioritario riguarda il piano della tutela giurisdizionale nelle ipotesi di contrasto fra la legge ordinaria italiana e le disposizioni della Convenzione.
Il giudice italiano, infatti, non potrà disapplicare la normativa incompatibile con la CEDU (analogamente a quanto avviene con le disposizioni eurounitarie direttamente applicabili[12]), ma dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 117, comma primo della Legge Fondamentale[13].
Il Giudice a quo, nell’ordinanza annotata, dimostra di aver fatto propri i rilievi fin qui accennati. Infatti, uno dei motivi di illegittimità costituzionale dell’art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. viene sollevato proprio con riferimento all’art. 117 Cost. per il tramite del parametro interposto di legittimità costituzionale di cui all’art. 4, prot. n. 7 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (cosiddetto principio del ne bis in idem CEDU).
Tuttavia, tale singolo motivo di illegittimità costituzionale non esaurisce l’impatto della CEDU nell’ordinanza annotata.
Anche gli ulteriori profili di illegittimità[14], infatti, trovano fondamento su un comune presupposto, ossia la natura sostanzialmente penale della sanzione di cui all’art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ., che costituisce il diretto precipitato della giurisprudenza della Corte EDU a partire dalla nota decisione Engel e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976.
Con la citata sentenza, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo giungeva ad affermare la necessità di definire la natura di una sanzione e, di conseguenza, l’ambito spaziale della cosiddetta “materia penale” sulla base di un approccio di tipo sostanziale, indipendentemente dal nomen iuris adottato dal legislatore nazionale[15].
Secondo la Corte EDU, dovrebbero essere oggetto di scrutinio, in particolare, la natura dell’illecito (indagata, a sua volta, attraverso i distinti profili della struttura dell’illecito e della significatività della trasgressione) unitamente alla natura e alla gravità della sanzione (tenendo conto, in particolare, del massimo edittale, del livello di stigma tendenzialmente associato alla violazione, dello scopo della sanzione e della pertinenza della stessa ad un fatto costituente reato[16]).
Applicando gli Engel criteria, il Giudice rimettente conclude per la natura sostanzialmente penale della sanzione formalmente amministrativa di cui all’art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ.
Utilizzando le parole del Tribunale di Treviso, la norma in esame infatti “sanziona, nell’ambito di un procedimento giurisdizionale, fatti connotati da un disvalore di natura penale con una sanzione di importo e natura equiparabili a quelli delle sanzioni penali perseguendo finalità proprie delle norme penalistiche[17]”.
Dalla qualificazione della sanzione come sostanzialmente penale discende l’applicabilità dei principi stabiliti dall’ordinamento giuridico per la cosiddetta “materia penale” e, dunque, nella prospettazione del Tribunale di Treviso, l’illegittimità costituzionale della disposizione in esame sotto tre distinti profili, i quali andranno ora esaminati.
4. L’illegittimità costituzionale della norma per violazione del ne bis in idem
Il primo profilo di incostituzionalità viene ravvisato, dal Giudice rimettente, nella violazione dell’art. 117, comma primo, della Costituzione per tramite dell’art. 4, comma primo, del Protocollo n. 7 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Ai sensi della citata disposizione, “Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato”.
Il ne bis in idem risulterebbe infatti violato, nel caso di specie, poiché il resistente sarebbe già stato condannato in sede penale per i medesimi fatti per i quali la ricorrente domanda la condanna ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ.
Il profilo di illegittimità costituzionale così delineato si inserisce nella più ampia questione della compatibilità del diritto nazionale con il ne bis in idem di derivazione CEDU qualora una medesima condotta venga punita con una sanzione formalmente penale unitamente ad una sanzione formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale alla luce degli Engel criteria (ipotesi che danno luogo al fenomeno del cosiddetto “doppio binario sanzionatorio[18]”).
Appare dunque opportuno premettere brevi cenni su due decisioni della Corte EDU non approfondite nell’ordinanza annotata ancorché rilevanti ai fini della fondatezza del presente profilo di incostituzionalità, ossia le sentenze Grande Stevens c. Italia[19] e A e B c. Norvegia[20].
Nel caso Grande Stevens, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità della normativa italiana in materia di abusi del mercato con gli artt. 6 della CEDU e 4 del Protocollo n. 7 alla Convezione. Nel caso di specie, in particolare, i ricorrenti erano stati condannati dalla Consob per un illecito amministrativo e, successivamente, condannati in sede penale per i medesimi fatti[21].
Riconosciuta la natura penale delle sanzioni irrogate dalla Consob alla luce degli Engel criteria, la Corte EDU rinveniva una violazione del principio del ne bis in idem, evidenziando l’identità fra i fatti contestati nel procedimento penale Engel e nel procedimento formalmente penale successivo cui i ricorrenti erano stati sottoposti[22].
Con un parziale revirement, tuttavia, la Corte EDU concludeva, nel caso A e B c. Norvegia, che la condanna in sede penale per i medesimi fatti per i quali è già intervenuta condanna formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale non viola il principio del ne bis in idem purché fra i due procedimenti vi sia una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta[23].
Nella sentenza citata, la Corte ha dunque introdotto un criterio aggiuntivo rispetto alla decisione Grande Stevens, precisando che il ne bis in idem non impedisce agli ordinamenti nazionali di delineare un sistema sanzionatorio integrato, articolato in procedimenti distinti[24].
Tale criterio, ancorché enunciato dalla Corte in maniera unitaria, si sviluppa in realtà sotto un duplice profilo, dovendo il Giudice indagare l’esistenza di una connessione sostanziale oltre che di una connessione temporale sufficientemente stretta fra il procedimento penale Engel e il successivo procedimento formalmente penale.
Quanto al primo profilo, la valutazione della compatibilità fra diritto nazionale e diritto convenzionale dovrà essere effettuata tenendo conto, in particolare, dei seguenti fattori:
a) se i procedimenti abbiano scopi differenti e abbiano ad oggetto profili diversi della medesima condotta antigiuridica;
b) se la duplicità dei procedimenti sia una conseguenza prevedibile della condotta;
c) se i due procedimenti siano condotti in modo da evitare, per quanto possibile, ogni duplicazione nella raccolta e valutazione della prova;
d) se la sanzione imposta nel procedimento che si conclude per primo sia tenuta in considerazione nell’altro procedimento, in modo che venga in ogni caso rispettata l’esigenza di una proporzionalità complessiva della pena[25].
Quanto al profilo temporale, invece, la Corte non richiede la stretta contestualità dei due procedimenti, ma ritiene sufficiente che sussista comunque un collegamento di natura cronologica fra gli stessi, sì da non sottoporre il soggetto sanzionato ad una “perdurante situazione di incertezza sulla propria sorte[26]”.
Applicando le coordinate interpretative della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo alla fattispecie concreta affrontata dal giudice rimettente, gli approdi raggiunti dal Giudice a quo appaiono condivisibili nel merito poiché la sanzione ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. risulta difficilmente compatibile con il criterio della connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta elaborato dalla Corte EDU nel caso A e B c. Norvegia.
Infatti, deve innanzitutto rilevarsi, sotto il profilo sostanziale, che la sanzione di cui alla norma in esame non ha uno scopo differente rispetto all’art. 570 cod. pen. né ha ad oggetto profili diversi della medesima condotta antigiuridica.
In secondo luogo, la duplicità dei procedimenti non appare una conseguenza prevedibile della condotta, essendo la condanna ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. del tutto eventuale e accessoria nei procedimenti di famiglia, né i due procedimenti sono in alcun modo coordinati in maniera tale da evitare duplicazioni nella raccolta e valutazione della prova.
In terzo luogo, non è normativamente previsto alcun meccanismo di coordinamento che consenta al giudice civile, in sede di condanna ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ., di tenere conto della sentenza penale di condanna ex art. 570 cod. pen. in relazione alla proporzionalità complessiva della pena.
Quanto, infine, al profilo temporale, va rilevato come l’irrogazione della sanzione ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. sia incerta nell’an, essendo subordinata all’istanza di parte o comunque alla discrezionalità del giudice, oltre che nel quando, potendo essere irrogata nell’ambito di un procedimento di famiglia instaurato anche diversi anni dopo la singola violazione.
Pertanto, la sanzione in esame appare concretizzare il rischio, stigmatizzato dalla Corte EDU, che il soggetto si trovi in una “perdurante situazione di incertezza sulla propria sorte[27]”.
5. Gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale: tassatività-determinatezza e ragionevolezza nel trattamento sanzionatorio. Cenni.
Il secondo profilo di incostituzionalità viene ravvisato, dal Giudice rimettente, nel contrasto fra la sanzione ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ. e il principio di tassatività-determinatezza di cui all’art. 25, comma secondo, Cost.
Secondo la prospettazione del Giudice a quo, in particolare, l’espressione “atti che comunque arrechino pregiudizio al minore” risulterebbe vaga e indeterminata e, pertanto, ex se lesiva del principio costituzionale richiamato[28].
La lettura sistematica della disposizione in esame, anche alla luce del comma primo dell’art. 709 ter cod. proc. civ. e dell’art. 570 cod. pen., peraltro, non aiuterebbe il Giudice nell’arduo compito di ricostruire il contenuto del precetto, ma renderebbe altresì tale compito ancora più difficoltoso[29].
Il vulnus al principio di tassatività-determinatezza, infine, risulterebbe particolarmente accentuato con riguardo alla nozione di “pregiudizio”, la quale sarebbe “lasciata all’arbitrio del Giudice, la cui determinazione risulta fatalmente e inevitabilmente soggettiva e connotata da ampi margini di discrezionalità in considerazione dell’eccessiva apertura del dettato normativo[30]”.
Tale profilo di illegittimità costituzionale, a parere dello scrivente, non solleva particolari problematiche con riferimento all’adempimento, da parte del Giudice rimettente, dell’obbligo di interpretazione costituzionalmente conforme.
Infatti, nel momento in cui vengono invocate l’imprecisione e l’indeterminatezza di una disposizione e, conseguentemente, l’impossibilità di attribuirle un significato chiaro, oggettivo e prevedibile, la contrarietà al principio di tassatività-determinatezza non appare per definizione superabile mediante l’utilizzo dell’attività ermeneutica.
Pertanto, purché e nei limiti in cui la Consulta riterrà la questione rilevante[31], è ragionevole ritenere che il presente profilo di illegittimità costituzionale supererà il filtro di inammissibilità e non manifesta infondatezza e sarà dunque analizzato dal Giudice delle Leggi nel merito.
Infine, il Tribunale di Treviso ravvisa un terzo motivo di illegittimità costituzionale nel contrasto, della normativa in esame, con il principio di ragionevolezza nel trattamento sanzionatorio, di cui all’art. 3 della Legge Fondamentale[32].
La sanzione in esame, secondo il Giudice rimettente, punirebbe la medesima condotta sanzionata dall’art. 570 cod. pen., assunto come tertium comparationis, in misura ingiustificatamente superiore.
L’importo massimo della sanzione ex art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ., pari ad € 5.000,00, è infatti circa cinque volte superiore a quello della multa prevista dall’art. 570 cod. pen., quest’ultima pari ad € 1.032,00.
Le argomentazioni del Giudice rimettente appaiono assolutamente condivisibili sul piano sostanziale. Infatti, non si ravvisa alcuna ragione per la quale il medesimo profilo di una fattispecie concreta sanzionata da due diverse disposizioni di legge dovrebbe incontrare tale divario sul piano del trattamento sanzionatorio.
Maggiori perplessità, a parere dello scrivente, sorgono tuttavia con riferimento all’adempimento, da parte del Giudice rimettente, dell’obbligo di interpretazione costituzionalmente conforme[33].
Il Giudice a quo, infatti, motiva l’impossibilità di interpretare la norma in maniera conforme al dettato costituzionale allegando che “di fronte a una cornice edittale normativamente prevista, quale è quella di cui all’art. 709 ter, comma secondo, n. 4) cod. proc. civ., il Giudice dovrà necessariamente graduare l’importo della sanzione in relazione alla gravità della condotta, applicando importi tendenti al massimo a fronte di condotte reputate gravi e tendenti al minimo in relazione a violazioni di entità minore[34]”.
Tale rilievo non risulta del tutto condivisibile. Infatti, seppur vincolato dalla forbice normativamente prevista, il Giudice potrebbe comunque adoperare un’interpretazione costituzionalmente orientata e, pertanto, applicare una sanzione il cui importo sia in linea con quello di cui alla multa ex art. 570 cod. pen., sì da eliminare in concreto, ancorché non in astratto, l’irragionevole disparità nel trattamento sanzionatorio.
[1] Sulla nozione e sulla portata del requisito della rilevanza, cfr., ex multis, Corte Costituzionale sentt. nn. 174/2016, 10/2015, 184/2016.
[2] Cfr., in senso favorevole, Trib. Modena, ord. 29 gennaio 2007 in Fam. e dir., 2007, 823; in senso contrario, Trib. Termini Imerese, ord. 12 luglio 2006 in Foro it., 2006, I, col. 3243.
[3] Cfr. ordinanza annotata.
[4] Cfr., ex multis, Cass. 30 settembre 2016, n. 19599.
[5] “Sono state individuate per la prima volta nel panorama normativo delle sanzioni di tipo economico nei confronti del genitore inadempiente e a favore del figlio, oltre che del coniuge eventualmente beneficiario dell’assegno consentendo, così, una protezione molto maggiore e più consolidata ai casi di inadempienza” cfr. On. Paniz, seduta della Camera dei deputati del 10 marzo 2005.
[6] Cfr., ex multis, Garofoli, Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, Nel Diritto Editore, ed. XII, 2018/2019.
[7] Cfr. Corte Cost. 7 giugno 2018, n. 120, intervenuta sullo status giuridico della Carta Sociale Europea.
[8] Cfr. Corte Cost. citata. In ciò distinguendosi dalle norme di diritto dell’Unione Europea aventi i caratteri della chiarezza, precisione e completezza (Garofoli, Ferrari, supra p. 11 ss.).
[9] Il Trattato di Lisbona, il quale ha apportato delle modifiche al Trattato sull’Unione Europea, è entrato in vigore in data 1 dicembre 2009 ed è stato ratificato dall’Italia con la legge 2 agosto 2008, n. 130.
[10] Cfr., ad es., Cons. St., Sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220.
[11] Cfr., ex multis, Luigi d’Angelo, “Comunitarizzazione” dei vincoli internazionali CEDU in virtù del Trattato di Lisbona? No senza una expressio causae (nota a Cons. St., Sez. IV, 2/3/2010, n. 1220 e TAR Lazio, Sez. II bis, 18/5/2010 n. 11984), citando Celotto, Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano?, in www.giustamm.it.
[12] Cfr. Corte Cost. 8 giugno 1984, n. 170 (cosiddetta sentenza “Granital”).
La Corte, con la decisione citata, giungeva a un revirement parziale dell’orientamento precedentemente espresso in merito alla rilevabilità del contrasto fra disposizioni nazionali e comunitarie incompatibili.
Fino alla sentenza Granital, infatti, la Corte distingueva i casi in cui la normativa anti-comunitaria fosse precedente rispetto all’emanazione della normativa UE direttamente applicabile dai casi in cui la normativa nazionale contrastante fosse al contrario emanata successivamente alla stessa.
Nei primi casi, la norma interna avrebbe dovuto senz’altro ritenersi caducata per effetto della successiva e contraria statuizione del regolamento comunitario, e il Giudice ordinario avrebbe dunque potuto e dovuto applicare direttamente la normativa UE senza bisogno di sollevare questione di legittimità costituzionale.
Diversa, invece, era la soluzione data all’ipotesi di contrasto fra la nuova disposizione interna e la normativa comunitaria precedentemente emanata.
In tali casi, infatti, il Giudice non avrebbe potuto disapplicare direttamente la normativa interna contrastante, ma avrebbe dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 11 Cost. da parte della normativa nazionale contrastante con il diritto UE.
Con la sentenza Granital, la Corte Costituzionale, pur ribadendo la propria adesione alla teoria “dualista” dei rapporti fra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario (orientamento peraltro rivisto dalla Corte stessa in seguito alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione. Cfr. Corte Cost., ord. 15 aprile 2008, n. 103, la quale ha parlato di un “ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato”), adottava una soluzione diversa con riferimento alla seconda ipotesi prospettata.
Infatti, concludeva la Corte, il regolamento comunitario va sempre applicato dal Giudice, sia che esso segua, sia che esso preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso incompatibili; e il Giudice nazionale, investito della relativa applicazione, può giovarsi dell’ausilio che gli offre lo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE, non potendo altresì sollevare questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 11 Cost.
[13] Cfr. Corte Cost. 22 ottobre 2007, nn. 348, 349. Secondo la ricostruzione della Consulta, infatti, l’art. 117, comma primo, Cost. non fornisce alle disposizioni CEDU rango costituzionale, ma le interpone fra le disposizioni della Costituzione e della legge ordinaria, sicché l’eventuale incompatibilità tra norme interne di rango primario e norme della Convenzione dovrà essere oggetto di questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma primo, Cost.
[14] Fondati, come si vedrà, sugli articoli 3 e 25 della Costituzione.
[15] Cfr. Corte EDU 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, in www.hudoc.echr.coe.int; cfr., altresì, Corte EDU, Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1985, in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, 894, con nota di Paliero, “Materia penale” e illecito amministrativo secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: una questione classica e una svolta radicale.
[16] Id. Cfr. anche Corte EDU 9 ottobre 2003, Ezeh e Connors c. Regno unito, in Legisl. Pen., 2004, p. 351; Corte EDU 30 maggio 2006, Matyjec c. Polonia; Corte EDU 24 settembre 1997, Garyfallou AEBE c. Grecia.
[17] Cfr. ordinanza annotata.
[18] Cfr. Garofoli, Manuale di diritto penale, Nel Diritto Editore, ed. XV, 2018/2019, p. 39 ss.
[19] Cfr. Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia.
[20] Corte EDU 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia.
[21] Cfr. Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia. V. inoltre Tripodi, Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L’Italia condannata per violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato, in penalecontemporaneo.it.
[22] Id.
[23] Cfr. Corte EDU 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia. V. inoltre Garofoli, supra; Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in penalecontemporaneo.it.
[24] Cfr. Garofoli supra, p. 41.
[25] Cfr. Corte EDU 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia; Garofoli, supra; Viganò, supra.
[26] Id.
[27] Id.
[28] Cfr. ordinanza annotata.
[29] Id.
[30] Id.
[31] Cfr., in particolare, par. 2 della presente nota a ordinanza.
[32] Cfr. ordinanza annotata.
[33] Il quale costituisce uno dei principali filtri per l’ammissibilità di una questione di legittimità costituzionale. Come chiarito dalla Consulta, infatti, “di una disposizione legislativa non si pronuncia l’illegittimità costituzionale quando se ne potrebbe dare un’interpretazione in violazione della Costituzione, ma quando non se ne può dare un’interpretazione conforme a Costituzione”, cfr. Corte Cost. 9 giugno 2015, n. 153.
[34] Cfr. ordinanza annotata.