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PENALE  

Divieto di reformatio in peius. L’origine, i fondamenti e l’interpretazione di un divieto che affligge l’economia processuale.

  Penale 
 venerdì, 17 febbraio 2017

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di FRANCESCO ENRICO SALUZZO, Procuratore Generale di Torino

 
 

 

Le origini codicistiche del divieto di reformatio in peius e le resistenze opposte alla previsione dello stesso nell’attuale codice di procedura penale.

 

1)      Codice del 1913, art. 480 co. 2:

il divieto si concretava nella previsione secondo cui la sentenza non poteva essere riformata, a danno dell’imputato soltanto nella qualità e misura della pena

 

2)     Codice del 1930, art. 515 co. 3 c.p.p.:

il divieto si estende all’applicazione di misure di sicurezza nuove o più gravi di quelle contenute nella sentenza appellata e al proscioglimento dell’imputato per una causa meno favorevole rispetto alla precedente decisione.

 

3)      Codice del 1988 - iter legislativo:

 

§  In sede di elaborazione della legge di delega per la riforma del Codice di procedura penale la Commissione Giustizia alla Camera aveva approvato un emendamento per introdurre - come nuovo principio e criterio direttivo della delega - la “parità tra il Pm e l’imputato in ordine all’eventuale appello incidentale” ma aveva mantenuto il silenzio sul correlativo tema della reformatio in peius.

 

A livello parlamentare si scatenò un ampio dibattito tra i favorevoli all’introduzione e i contrari:

o   Tra i favorevoli all’introduzione del divieto di reformatio in peius:

-       On. Vassalli indicava quel silenzio come una lacuna da colmare;

-     Rel. Fortuna: il divieto come espressione di un principio politico del processo di enorme rilievo; la minaccia della reformatio in peius sarebbe stata un elemento veramente preoccupante rispetto ai diritti della difesa;

-    Rel. Valiante: il divieto è nella linea delle nostre tradizioni giuridiche;

-   Parere del Governo: il Governo è convinto che il divieto di reformatio in peius sia un principio da nessuno posto in discussione.

o   Contrari al divieto:

-    On. Padula: “principio strettamente legato al criterio del tantum devolutum quantum appellatum. L’obbligatorietà della rinnovazione del dibattimento deve comportare l’esplicita abolizione del principio del divieto della reformatio in peius; infatti deve ricadere sulle parti la piena responsabilità delle conseguenze che potranno incontrare nell’esercizio di quella disponibilità che il sistema accusatorio loro confida”.

 

§   Il d.l. Gonnella (d.l. n. 380/1968) “per la riforma del Codice di procedura penale” non conteneva alcuna indicazione né sul tema della reformatio in peius, né sul connesso tema dell’appello incidentale.

 

§   L’emendamento Vassalli del 1971 prevedeva il divieto di reformatio in peius nel solo caso di appello dell’imputato; l’emendamento tuttavia non completò il suo iter e nel ’72  venne riproposto.

 

§  Nel 1977 un’apposita sottocommissione con il compito di predisporre il progetto di un testo articolato sulla generale materia delle impugnazioni proponeva un ampliamento dell’ambito operativo del divieto in esame.

 

§  Il Parere sul testo completo del Progetto Preliminare per il nuovo c.p.p., steso dalla Commissione consultiva, e pubblicato nel 1979: prevedeva all’art. 558 co. 3 e co. 4, la formulazione “diretta” e “indiretta” del divieto, negli stessi termini che dieci anni dopo verranno consacrati nel vigente art. 597 co. 3 e co. 4 del c.p.p. del 1988; il testo del 1979 tuttavia non venne mai sottoposto all’approvazione del Consiglio dei ministri.

 

§  Nel 1982 si addiverrà alla approvazione di un d.l. nel quale venivano riproposte, le stesse direttive del 1974 (esclusione dell’appello incidentale, ammissibilità dei nuovi motivi di impugnazione, divieto di reformatio in peius in caso di appello del solo imputato).

 

Taluno, in sede di discussione, rilevava che l’introduzione dell’appello incidentale di ambedue le parti non valesse come efficace disincentivo all’abuso dell’impugnazione, pertanto una parte della Commissione ministeriale proponeva emendamenti e soluzioni alternative:

1)      l’eliminazione del divieto di reformatio in peius, riconoscendo la possibilità al giudice di riformare in peius la sentenza quando vi è appello del solo imputato e di riformarla in melius quando vi è appello del solo PM;

2)      limitare l’effetto devolutivo dell’appello ai punti cui si riferiscono i motivi, con la possibilità per il giudice di riformare in meglio o in peggio la sentenza impugnata.

Gli emendamenti suddetti tuttavia non passarono in votazione per questioni procedurali e, pertanto, rimase ferma la previsione del divieto tout court.

 

§   Il testo della Commissione Giustizia dell’82 venne ripresentato nella legislatura successiva e trasposto nella seconda delega per il Codice di procedura penale: l. 81/1987.

 

Il Parlamento tuttavia non accoglieva la proposta di soppressione ma anzi nella Relazione preliminare al “nuovo” Codice specificava che il divieto veniva rafforzato rispetto al codice del 1930, prevedendo l’obbligatoria diminuzione della pena complessiva in caso di accoglimento dell’appello in ordine alle circostanze o al concorso di reati.

 

Ø  {Il  nuovo art. 597 comma 3 c.p.p., nella sua formulazione definitiva apparve fin da subito caratterizzato da una ratio poco nitida e una fisionomia operativa per alcuni aspetti incerta come si evince dalle prospettive ermeneutiche e dalla vasta e variegata gamma di approdi registrati dalla giurisprudenza di legittimità.

Il punto dibattuto - oggetto da tempo di dibattito dottrinale e contrasti giurisprudenziali - attiene al raggio operativo del divieto di reformatio in peius: ci si domanda se il raggio operativo del divieto di reformatio in peius debba fermarsi alla pena finale e alle sue modalità esecutive, oppure possa coprire anche le singole componenti in modo che non subiscano aggravi tali da compensare variazioni in melius su punti diversi.

Si sono, quindi, sviluppati due indirizzi giurisprudenziali sostanzialmente divergenti:

1)    L’approccio "sintetico":

 

§  Cass. Sez. Un. n. 40910 del 27.9.2005 William Morales.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, il divieto di reformatio in peius non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma anche tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione.

 

Si tenga presente che sotto la vigenza del codice di rito penale abrogato, la giurisprudenza applicava il divieto in esame solo alla pena complessivamente inflitta e non anche ai singoli elementi che la compongono e ai calcoli effettuati per giungere ad essa, con la conseguenza che nel caso di appello del solo imputato, il giudice d’appello non poteva “travalicare il limite complessivo della pena già inflitta o modificare in senso peggiorativo la specie, rimanendo, invece, libero di una diversa valutazione della gravità dei fatti o di una non coincidente applicazione dei criteri di cui agli artt. 69 e 133 c.p.” (Cass. del 22.11.1985, in ass.pen., 1986, III, p. 656).

 

2)      L’interpretazione “analitica”:

Il divieto di cui all’art. 597 co. 3 c.p.p. concerne il dispositivo e riguarda solo la pena complessiva; rimangono invece esclusi i singoli elementi che compongono la pena e i calcoli effettuati per giungere alla sua determinazione, ivi compresi gli aumenti e le diminuzioni, per cui, in motivazione, il giudice può rideterminare la pena per il reato base nel massimo edittale in senso sfavorevole all’imputato, sempre che non irroghi una pena complessiva più grave di quella precedentemente irrogata. (Cass. pen., Sez. I, n. 13702 del 13.3.2007, Santapaola)

Il divieto della riforma peggiorativa, dunque, non si estende alla motivazione nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti (Cass. pen., Sez. III, n. 25606 del 24.3.2010, Capolino e altro).

Nel medesimo senso si è ancora affermato che il divieto possa operare nel caso in cui il giudice d’appello, applicando la disciplina della continuazione, abbia rideterminato la pena base con riferimento ad un reato diverso da quello erroneamente individuato dal primo giudice come reato più grave, pervenendo comunque, per effetto del riconoscimento di una circostanza attenuante, alla riduzione della pena conclusivamente applicata (Cass. pen., sez V, n. 12136 del 2.2.2011, Mannavola).

In definitiva, dal divieto di reformatio in peius deriva il vincolo all’irrogazione di una pena complessivamente inferiore a quella già inflitta, ma ciò non vale per le singole componenti, sicchè la pena base potrà essere individuata anche in misura maggiore alla pena irrogata per il reato più grave poi venuto meno (Cass. pen., Sez. VI, n. 31266 del 16.6.2009, Buscemi e altro).

A seguito del contrasto giurisprudenziale appena illustrato è stata rimessa alle Sezioni Unite che con la sentenza n. 16208 del 27 marzo 2014 hanno escluso che incorra nella violazione del divieto di reformatio in peius il giudice di rinvio che – individuato il reato più grave a norma dell’art. 81 co. 2 c.p. in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte di Cassazione, pronunciata su ricorso del solo imputato – apporti per uno dei reati in continuazione un aumento maggiore della pena rispetto a quello stabilito dal primo giudice, pur non irrogando una pena di entità complessivamente maggiore.

La sentenza in esame, tuttavia, sottolinea le peculiarità dell’istituto del reato continuato, che nel caso di specie costituiva “l’oggetto su cui deve commisurarsi il raffronto tra i trattamenti sanzionatori”. Dipenderebbe dunque, da tali caratteristiche strutturali la diversità tra gli esiti cui approda la decisione de qua e le conclusioni raggiunte dalla Cass., Sez. Un., 27.9.2005, espressione dell’approccio sintetico.

In questa sede tale statuizione viene ribadita, ma delimitata nella sua portata applicativa: è destinata ad operare solo laddove il giudice dell’appello o del rinvio sia chiamato a pronunciarsi sulla “stessa sequenza di reati avvinti dal cumulo giuridico”, ipotesi nella quale troverebbe una plausibile giustificazione “la preclusione a non rivedere in termini peggiorativi non soltanto l’esito finale del meccanismo normativo di quantificazione del cumulo, ma anche i singoli parametri di commisurazione di ciascun segmento che lo compone”.

 

Nonostante l’indirizzo interpretativo espresso dalle Sezioni Unite del 2013, le più recenti pronunce si sono discostate dal tracciato; in particolare:

§  Cass. pen., Sez. II, sent. n. 34387 del 6.5.2016

Nel giudizio d’appello, instaurato a seguito di impugnazione del solo imputato, viola il divieto di reformatio in peius il giudice che, riqualificato in termini di minore gravità il fatto sul quale è commisurata la pena base – a seguito del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche - pur irrogando una sanzione complessivamente inferiore a quella inflitta in primo grado, applica per i reati satellite – già unificati per la continuazione – un aumento di pena maggiore rispetto a quello praticato dal giudice della sentenza riformata, in quanto la struttura del reato continuato non cambia nonostante la mutata qualificazione della violazione più grave.

I continui contrasti della giurisprudenza di legittimità non permettono una chiara e precisa delimitazione dei confini di applicabilità dell’istituto.

 

Le diverse opzioni interpretative prospettate sul fondamento giuridico del divieto: qual è l’effettiva ratio del divieto?

 

-          Il favor rei.

In tal senso, il favor rei viene considerato come un super-principio normativo che discende dalla presunzione di innocenza sancito dalla Costituzione. Tale derivazione costituzionale del principio del favor rei potrà, tuttavia, affermarsi in ordine al riconoscimento della responsabilità e non anche relativamente agli effetti dell’appello.

Peraltro il principio in oggetto non può essere inteso come principio generale normativo bensì come principio generale “informatore”, capace come tale solo di esprimere una funzione interpretativa, indicando di scegliere, tra le diverse letture possibili di una norma, quella più favorevole all’imputato; in punto di valutazione della responsabilità consentirà, quindi, la “razionalizzazione” di un dubbio, ma in tema di impugnazioni potrebbe potenzialmente determinare un irrazionale squilibrio tra il pieno esercizio della potestà punitiva e l’interesse dell’imputato.

 

-        Il diritto di difesa.

Il diritto di difesa si manifesta nelle modalità di formazione e valutazione della prova il cui esito finale può tradursi in un diritto ad essere assolti, in un diritto a una pena equa e inferiore a quella comminata in primo grado, ma non necessariamente a una pena “bloccata” anche laddove la valutazione globale del Tribunale possa ritenersi errata.

 

-     Principio della domanda: tantum devolutum quantum appellatum.

Le Sezioni unite lo riconducono al principio della domanda, osservando che altrimenti sarebbe consentito al giudice di appello andare oltre il petitum sostanziale perseguito attraverso il gravame ed introdurre nel panorama decisorio effetti “novativi”, determinando un aggravamento della posizione dell’imputato, senza domanda della parte pubblica.

In realtà, non esiste alcuna relazione di dipendenza tra devoluzione e divieto di riforma in peggio: la prima opera a livello di cognizione, il secondo sul piano della decisione.

Occorre interrogarsi sulla stessa sussistenza, nel nostro ordinamento, del menzionato “principio della domanda”: l’appello può essere identificato con una “domanda”, tale da limitare conseguentemente il potere dell’organo giudicante? Se così fosse, come potrebbe spiegarsi la possibilità per il giudice di irrogare una sanzione minore anche laddove ciò non sia compreso tra i motivi di impugnazione?

In effetti, la devoluzione parziale non vincola il giudice al riscontro della fondatezza dei motivi proposti, conferendogli invece pieni poteri di conoscere i punti investiti dai motivi.
Se davvero l’oggetto del “riesame” di merito fosse la domanda dell’impugnante, una volta riscontratone il fondamento, il giudice non potrebbe che decidere in conformità con le richieste formulate. Come se fosse configurabile un potere dell’imputato unico appellante, di devolvere al suo giudice, e così condizionandolo, il potere di decidere, ed anzi il dovere di non decidere, e dunque un contro-potere di interdizione.

Al contrario, la devoluzione parziale dovrebbe consentire all’organo giudicante di rescindere la precedente pronuncia, sostituendovi in parte qua la propria: a una nuova cognizione dovrebbe pertanto fare seguito un nuovo giudizio e una nuova – non limitata – decisione.

 

“Lo scollamento tra cognizione e decisione che si realizza in forza del divieto di riforma in peggio non permetta al giudice di modificare nel merito gli esiti del processo, assecondando il proprio libero convincimento, ma lo costringe negli angusti confini di una motivazione in malam partem. Più in generale, potrebbe persino profilarsi un attrito con il principio di legalità, ponendosi il divieto come momento di rottura tra accertamento, responsabilità e pena, in contrasto con l’indefettibilità della giurisdizione” (H. Belluta, “L’odissea del divieto di reformatio in peius: la parola torna alle sezioni unite”, in www.penalecontemporaneo.it).

 

I diversi orientamenti che vogliono ricondurre il fondamento del divieto di reformatio in peius all’uno o all’altro principio dell’ordinamento processual-penalistico non risultano coerenti e corretti. Parte della dottrina, pertanto, abbandonando ogni tentativo di addivenire ad una razionale collocazione dell’istituto ha preferito ripiegare nella comoda e tralaticia soluzione della sua configurazione in temini di principio di portata generale.

Complice di questo nuovo orientamento è sicuramente una pronuncia della Corte Costituzionale che nella sentenza n. 3 del 14 gennaio 1974, annoverò tra i principi fondamentali del processo penale: “i principi fondamentali del processo penale, dalla contestazione dell’accusa, all’esercizio del diritto di difesa, al doppio grado di giurisdizione, al divieto di reformatio in peius in difetto di impugnazione del pubblico ministero”.

In realtà tale configurazione del divieto di riforma in peggio in termini di principio generale dell’ordinamento non è stata oggetto di riconoscimento unanime da parte della giurisprudenza ed ha suscitato perplessità nella dottrina che ne rinveniva i caratteri di eccezionalità.

 

Volgendo lo sguardo alla Carta Costituzionale si deve notare che, pur ipotizzandosi una pluralità di gradi nel procedimento giudiziario (ex art. 24.2) non si configura sul piano delle garanzie un giudizio di merito di secondo grado (“il doppio grado di giurisdizione, così diffuso e tradizionale nell’orientamento italiano, non è oggetto di un diritto elevato a rango costituzionale” - Corte Cost. 280/1995).

A maggior ragione nel testo costituzionale manca una qualsiasi previsione relativa alla configurazione, in sede di giudizio di appello, di un eventuale divieto, in sede di appello, di reformatio in peius.

 

Anche nelle Convenzioni internazionali non si riscontra alcun riferimento che consenta di riconoscere al divieto di reformatio in peius la portata di principio generale.

Nel Patto sui diritti civili e politici dell’ONU (1966) si fa solo riferimento, a favore di ogni individuo condannato per un reato, al “diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminate da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge”.

 

Ugualmente in ambito comunitario, manca un qualsiasi riferimento normativo cui possa trovare appiglio la previsione di un principio generale di divieto di riforma in peggio. L’art. 2 del Protocollo n. 7 della CEDU (ratificato con l. 98/1990), ribadisce quanto già affermato nel Patto sui diritti civili e politici dell’ONU del 1966 affidando peraltro alla legislazione interna il compito di determinare le modalità concernenti l’esercizio del diritto ad attivare l’esame da parte della non meglio precisata giurisdizione superiore; la norma non legittima un’interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito (C. Cost. 288/1997).

 

 

Nonostante i plurimi tentativi di inquadramento, il divieto, dal punto di vista logico-giuridico non ha fondamento, essendo invece ispirato da una ragione esclusivamente politica.

 

Il riconoscimento del divieto di reformatio in peius, peraltro, e come già accennato, si scontra con alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento:

 

L’art. 101 comma 2 Cost. prevede che “Ogni giudice è soggetto soltanto alla legge”.

In virtù di tale assunto l’organo pubblico, PM, non ha il potere neanche in primo grado di condizionare o limitare i poteri del giudice. Il giudice potrà nonostante le difformi richieste del PM assolvere o condannare l’imputato o condannarlo ad una pena diversa da quella richiesta. Qualora poi, in secondo grado a farsi promotore dell’appello sia il PM, il giudice potrà adottare “ogni provvedimento imposto o consentito dalla legge” ex art. 597 co. 2 c.p.p.

Alla luce della disciplina contenuta nei commi 3 e 4 dell’art. 597 c.p.p., non potrà farlo allorquando appellante è il solo imputato. Non potrà irrogare una pena più grave per specie e quantità, revocare benefici salva la facoltà di dare al reato, entro i limiti delineati per i poteri di cognizione una diversa definizione anche più grave, purchè non venga superata la competenza del giudice di primo grado; non potrà neanche applicare una misura di sicurezza nuova o più grave o prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata.

Il giudice sarà quindi limitato per effetto dell’esercizio di “un contro potere riconosciuto al privato, che in tal modo mette in soggezione addirittura il giudice. Lo può fare in forza di una legge e quindi in ossequio formale all’art. 101 Cost. ma si tratta di una legge che si morde la coda, depotenziata, nella sua scarsa razionalità istituzionale”.

Quindi si afferma la potenzialità neutralizzatrice del potere giurisdizionale da parte del contropotere dell’imputato unico appellante che spesso sarà anche già condannato.

Mentre è rimasto fermo il divieto di reformatio in peius relativamente all’appello del solo imputato, al contempo è però ritenuta possibile la riforma in melius per l’imputato, in presenza del solo appello antagonistico da parte del PM.

Il potere di delimitare l’ambito di cognizione del giudice d’appello è stata, tuttavia, considerata una delimitazione sostenibile in quanto strettamente correlata con le esigenze di economia processuale.

Pur superando le critiche volte a rilevare l’asimmetria che caratterizzerebbe in tal modo il processo tra parti, una rapida occhiata alla tabella contenente i dati ministeriali con oggetto il numero di procedimenti penali pendenti dinnanzi alle Corti d’Appello dimostra come gli intenti politici non siano soddisfatti nella realtà giudiziaria.

Rispetto al dato del primo grado e della cassazione (in aumento, ma in termini fisiologici) l’aumento della pendenza in appello è quasi del 200%.

Ribadire l’incentivo all’impugnativa rappresenta una contraddizione foriera di un nuovo intasamento delle procedure in contrasto con le esigenze di economia processuale.

Il divieto di reformatio in peius è sicuramente un incentivo all’impugnativa da parte del solo imputato; del resto è come proporre di giocare a “testa o croce” alle seguenti condizioni: “Se vince testa, vinci tu. Se vince croce, pareggiamo”. Il malcapitato non soltanto non potrebbe mai vincere e soprattutto passerebbe le giornate a giocare; questo è il ruolo del PM nel nostro sistema delle impugnazioni.

 

È un aggiramento sofistico del divieto affermare che lo stesso non sia diretto ad attribuire all’imputato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole rispetto a quello derivante dal precedente grado ma che abbia il solo scopo di impedirgli di subire un trattamento sanzionatorio più severo di quello riservatogli dal primo giudice.

L’imputato condannato avrà sempre un interesse a proporre appello. Non rischierà sostanzialmente nulla in caso di appello infondato o dilatorio. L’abuso del processo da parte dell’imputato è la diretta conseguenza; la speranza di far decorrere i termini massimi di prescrizione alimenta questa tendenza all’impugnativa.

L’assenza di effettivi limiti alla proposizione degli appelli determina sul sistema conseguenze drastiche tanto in tema di economia processuale quanto a livello economico.

Occorre far si che si muti radicalmente la valutazione “costi/benefici” rispetto alla scelta di proporre appello e ciò sarà possibile con una riforma a costo zero, che possa coniugare il pieno esercizio del diritto di difesa con forme efficaci di disincentivazione di appelli pretestuosi e dilatori: l’abolizione dell’art. 597 comma 3 c.p.p.

 

                                                                                   

 

 
 
 
 
 
 

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