Relazione tenuta il 25 settembre 2024 al Corso della SSM sulla “Dirigenza integrata”
Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda della doppia dirigenza, ambiguità e nodi da sciogliere. – 3. I momenti di raccordo. – 4. La strumentalità. – 5. La valutazione del dirigente e il nuovo parere per le funzioni direttive. – 6. I casi di inerzia e contrasto. – 7. Gli addetti all’UPP.
1. Premessa.
Le considerazioni che seguono sono attraversate da una sorta di filo rosso, da una sorta di principio base: quello dei diversi punti di vista, occorre, cioè, tenere conto del punto di vista dell’altro e non solo del proprio punto di vista.
E, quindi, non posso che iniziare da Ottaviano Augusto e Montesquieu.
Le Res Gestae o Index rerum a se gestarum di Ottaviano Augusto che conosciamo attraverso epigrammi rinvenuti in tre località dell’attuale Turchia, quali esempi classici del bilinguismo dell’impero romano, sono stati tramandati in lingua latina e in lingua greca, laddove i due testi, secondo l’orientamento filologico prevalente, non coincidono perfettamente, in quanto il testo greco è stato opportunamente adattato alla realtà politico-culturale delle province orientali dell’Impero, ossia il testo greco è stato redatto tenendo presente – si intende in modo utilitaristico - il punto di vista degli abitanti delle province orientali (es. il termine latino Princeps è tradotto in Heghemon più adatto alla storia e alla cultura orientale).
Le “Lettere persiane”, opera di Montesquieu, pubblicata anonima nel 1721 ad Amsterdam, avente a oggetto uno scambio epistolare fra due orientali, due persiani che viaggiano in Europa, Usbeck e Rica, offrono a Montesquieu l’espediente per pubblicare, in forma di lettere, brillanti saggi nei quali la società e le istituzioni (francesi innanzi tutto), sono descritte secondo moduli relativisti, adottando il punto di vista di esponenti di una cultura diversa da quella europea.
Scendendo tra i mortali, in tema di cd. doppia dirigenza, è necessario valorizzare tutti i punti di vista in campo (giurisdizione, amministrazione, CSM, Ministero, personale amministrativo, magistrati, capo dell’ufficio, dirigente amministrativo); occorre dare maggiore rilievo alla dimensione relazionale e dialettica tra i protagonisti in gioco, così come occorre un abbandono definitivo della visione gerarchica.
In un tale sconsolato quadro, a quale modello dobbiamo o possiamo ispirarci?
Quello che richiama la figura mitica Giano bifronte? Dio arcaico dei romani, non di derivazione ellenica, dio del passaggio, del passato e del futuro insieme: nel nostro caso uno sguardo rivolto verso la giurisdizione e uno sguardo rivolto verso l’amministrazione.
O ancora, possiamo ricordare, quale metafora dell’esperienza concreta del continuo e quotidiano mutamento di ruoli, tipico dei casi di cumulo delle due funzioni, la commedia di Aristofane «Le donne all’assemblea popolare», dove attori uomini interpretano donne che si travestono da uomini per poter partecipare e votare in assemblea popolare.
Nei rari casi di compresenza dei due dirigenti, ci possiamo rifare all’esperienza dei due consoli romani ove ciascuno di essi era titolare del potere nella sua interezza e poteva esercitarlo in via del tutto autonoma, salva la facoltà del collega di porre il veto (intercessio). Come tutti ricordano, per evitare possibili inconvenienti, si escogitarono diversi sistemi: il sistema dei turni, in base al quale i due consoli dividevano l'anno in periodi - in genere mensili - in cui si alternavano nel disbrigo degli affari civili (nell'esercizio del comando militare, nel caso in cui entrambi i consoli fossero alla guida dell'esercito, e i turni erano giornalieri); il sistema della ripartizione delle competenze tra i consoli eletti, in base al quale ciascuno dei due esercitava in maniera esclusiva alcuni poteri. È comunque importante sottolineare che la divisione di competenze o i turni di esercizio non interessava alcune forme di esercizio del potere (come le proposte di legge).
2. La vicenda della doppia dirigenza, ambiguità e nodi da sciogliere.
Il modello del cumulo di funzioni e di poteri in mano al capo dell’ufficio, privo di conflitti di interesse, tipici, invece, di altre fattispecie di sovrapposizioni di funzioni nella medesima persona, trova ampio spazio grazie alla specificità dell’amministrazione della giurisdizione (v. Capitoli 2 DM 10 maggio 2018 e DM 23 dicembre 2021 in tema di performance).
Tuttavia, in tema di modelli, non si può fare a meno di osservare che la cd. doppia dirigenza giudiziaria rappresenta un caso unico in Europa, dato che non si conoscono modelli identici a quello italiano, caratterizzato da un cumulo di funzioni.
Nella gran parte degli Stati Europei del Nord i funzionari giudiziari paragonabili ai nostri dirigenti amministrativi per quel che concerne posizione, titoli di studio e reclutamento, svolgono per così dire funzioni miste, ossia funzioni di certificazione, esecuzione, ma anche numerose funzioni giurisdizionali, ad esempio in materia di volontaria giurisdizione, di decreti ingiuntivi, di patrocinio a spese dello Stato, di esecuzione forzata, di vendita forzata e amministrazione giudiziaria, di insolvenza o nel settore della determinazione dei costi e dell'esecuzione penale (tipico è il modello della Repubblica Federale Tedesca dove i funzionari giudiziari – Rechtspfleger - sono dipendenti del ministero della Giustizia ed esercitano funzioni in qualità di "seconda colonna del potere giudiziario”).
In Francia il cancelliere, in quanto esperto procedurale, coadiuva il giudice nel compimento degli atti che rientrano nella sua giurisdizione e autentica gli atti giudiziari ove le leggi e i regolamenti lo prevedano. Naturale collaboratore del giudice, assiste quest'ultimo nella preparazione e nel trattamento dei fascicoli, nonché nelle ricerche giuridiche. Sulla base delle istruzioni dei magistrati, redige le bozze delle decisioni e degli atti d'accusa.
Nei Paesi Mediterranei, in linea di massima, le mansioni dei funzionari giudiziari si avvicinano maggiormente a quelle proprie dei nostri funzionari presso gli uffici giudiziari.
Ne emerge, con le dovute significative eccezioni, un quadro variegato caratterizzato in alcuni Paesi da una certa funzione ancillare e per certi versi gerarchica tra giudici e funzionari giudiziari. Ad es. in Austria il giudice che presiede il tribunale regionale superiore deve indicare il tribunale presso il quale l'ufficiale giudiziario interessato deve assumere l'incarico di cancelliere e, se del caso, il periodo dell'incarico. All'interno del tribunale il cancelliere è assegnato dall'organo di direzione (il presidente o il capo del tribunale) a una sezione del tribunale diretta da un giudice o, se del caso, a più sezioni.
Per finire, si può affermare che, entro certi limiti, le mansioni dei funzionari giudiziari di molti Paesi europei hanno qualche punto di contatto con i nostri addetti UPP.
A questo punto, occorre chiedersi quale sia la percezione del fenomeno all’interno degli uffici giudiziari, sia dal punto di vista del dirigente, sia dal punto di vista del magistrato.
Di recente, nell’ambito dei lavori di una commissione ministeriale aventi a oggetto, appunto, la cd. doppia dirigenza, è stato realizzato un monitoraggio presso gli uffici di secondo grado (dove la percentuale di presenza del dirigente amministrativo è più alta), con rilascio di apposito questionario.
Su 116 posizioni apicali (26 distretti più tre sezioni distaccate) interessate dalla rilevazione, le risposte sono state 76. Pertanto, va tenuta presente la dimensione del campione non totalmente rappresentativo delle opinioni dei Capi degli uffici e dei Dirigenti degli Uffici giudiziari, anche perché, come detto, il monitoraggio è stato rivolto agli Uffici di secondo grado. Si tratta, però, comunque, di un utile strumento indicativo del mood attuale.
Il rapporto tra le due dirigenze è considerato positivo da larga maggioranza del campione. Le risposte raccolte delineano, comunque, una sostanziale buona tenuta dell’assetto delle competenze attualmente delineato dal D. Lgs. 240/2006, che pare aver individuato, con ottimale equilibrio, gli ambiti di lavoro di Capo dell’Ufficio e Dirigente amministrativo. Il dato di fondo che sembra attraversare tutte le risposte riferisce di una generalizzata compresenza virtuosa e di un atteggiamento volto alla ricerca di una fattiva collaborazione per l’efficienza dei servizi, anche se non sono mancati dubbi e rilievi su zone grigie della normativa che definisce le competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari.
La lunga vicenda normativa avente ad oggetto la regolamentazione della coesistenza di magistrato capo dell’ufficio e dirigente amministrativo nel quadro della direzione degli uffici giudiziari pareva aver trovato una soluzione in qualche modo soddisfacente anche sotto il profilo degli equilibri costituzionali con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 240 del 2006. In particolare, la distinzione di compiti e funzioni tra i due soggetti sembrava avere trovato un definito assetto con gli articoli 1 e 2 del D. Lgs. n. 240 citato concernenti l’“individuazione delle competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari”, fondata sulla nozione di unitarietà dell’ufficio. L’articolo 1 attribuisce “al magistrato capo dell’ufficio giudiziario la titolarità e la rappresentanza dell’ufficio, nei rapporti con enti istituzionali e con i rappresentanti degli altri uffici giudiziari, nonché la competenza ad adottare i provvedimenti necessari per l’organizzazione dell’attività giudiziaria e, comunque, concernenti la gestione del personale di magistratura ed il suo stato giuridico.”
L’articolo 2 attribuisce al Dirigente Amministrativo la “responsabilità della gestione del personale amministrativo da attuare in coerenza con gli indirizzi del magistrato capo dell’ufficio e con il programma annuale delle attività di cui all’articolo 4.” nonché il potere disciplinare nei confronti del personale amministrativo.
Punto qualificante del decreto legislativo n. 240/2006, doveva essere quanto previsto dal successivo articolo 3 relativo alla “gestione delle risorse finanziarie e strumentali” che si concretizzava (articolo 3, comma 2) con la competenza del dirigente amministrativo “ad adottare atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, anche nel caso in cui comportino oneri di spesa, nei limiti individuati dal provvedimento di assegnazione delle risorse di cui al comma 1” e con la nomina a Funzionario delegato, del Dirigente Amministrativo (articolo 3, comma 3).
Nelle distinzioni di compiti e funzioni, con il d.lgs. 240, pareva trovare valorizzazione l’esigenza di assicurare, attraverso una coesistenza virtuosa, una sempre più efficiente organizzazione degli uffici, nell’ottica del principio di buona amministrazione.
In estrema sintesi e stando alle attuali previsioni di legge, i principali compiti del Capo dell’ufficio sono oggi: la titolarità dell’ufficio, la rappresentanza dell’ufficio verso enti e altri uffici, l’organizzazione dell’attività giudiziaria, la gestione del personale di magistratura, (ex D.L. 193/2009), l’adozione dei programmi ministeriali di informatizzazione, la comunicazione dei dati di andamento dell’organizzazione servizi giudiziari, la redazione del programma annuale ex art. 4, l’emanazione degli atti di indirizzo sulla gestione risorse umane, la valutazione delle performance del dirigente, la gestione degli addetti UPP e i poteri in seno alla Conferenza Permanente.
I compiti del Dirigente amministrativo sono oggi: la gestione del personale amministrativo, la redazione del programma annuale ex art. 4, la gestione delle risorse finanziarie e strumentali, la emissione degli atti, anche di spesa, che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, l’adozione dei provvedimenti disciplinari per fatti lievi, lo svolgimento dei compiti di funzionario delegato.
Tuttavia, quanto previsto dal citato articolo 3 del decreto legislativo 240/2006 è rimasto lettera morta sotto tre profili:
- il dirigente amministrativo, di regola, non adotta atti, anche di spesa, che impegnano l’Amministrazione;
- ex art. 6, comma 3, d.p.r. 133/2015 (Conferenza Permanente), “possono essere delegate ai capi degli uffici giudiziari le competenze relativi alla formazione dei contratti necessari all’attuazione dei compiti di cui all’art. 4, comma, 1” (ossia, manutenzione immobili e strutture, riscaldamento, climatizzazione, utenze, pulizia, rifiuti ecc.);
- nella prassi ministeriale è stata conservata la qualifica di funzionario delegato in favore dei capi degli uffici distrettuali per una serie nutrita di capitoli di spesa che contraddice il comma 3 del citato art. 3, il quale ha affidato esclusivamente al dirigente amministrativo la qualifica di funzionario delegato per tutti i capitoli di spesa (che il più delle volte assume la qualifica di RUP).
Inoltre, a sconfessare il modello potenzialmente virtuoso del 2006, si scorgono alcuni indizi dell’esistenza di un eventuale rapporto gerarchico:
- ex art. 3, comma 5, il dirigente deve riferire al presidente della Conferenza sugli esiti delle attività di esecuzione delle delibere della Conferenza e sulla corretta esecuzione delle prestazioni contrattuali (diversamente da “in coerenza con gli indirizzi del..capo dell’ufficio”);
- la valutazione del dirigente spetta al capo dell’ufficio(v. infra);
- la gestione dell’UPP e dei relativi addetti, pur facendo parte questi ultimi del personale amministrativo, spetta al capo dell’ufficio e ai suoi magistrati delegati (v. infra).
Nella lunga vicenda della cd. doppia dirigenza è poi intervenuto l’articolo 1, comma 435, della legge 27 dicembre 2019 n. 160, che nell’abrogare l’articolo 5 e sostituire il Capo II (articoli 6, 7 e 8) del D. Lgs. 25 luglio 2006 n. 240, ha rivisto il tema della gestione/direzione” degli uffici giudiziari.
Le modifiche rispondono allo scopo “di garantire la realizzazione di interventi straordinari per la funzionalità dell’organizzazione giudiziaria anche in conseguenza del trasferimento delle competenze di cui all’articolo 1, comma 526 della legge 23 dicembre 2014 n. 190”.
Novità di rilievo è l’istituzione di uffici periferici di livello dirigenziale con i quali il Ministero esercita le funzioni e i compiti in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dal combinato disposto dei nuovi articoli 6 e 8 del decreto legislativo 240/2006, così come modificati dalla normativa in commento, emerge che gli organi periferici di livello dirigenziale sono identificati nella dirigenza amministrativa.
Altra novità è la previsione della possibilità di istituire per i dirigenti di seconda fascia un unico posto per più uffici giudiziari (diversa dall’ipotesi di mera reggenza).
Al dirigente amministrativo sono state attribuite tutte le funzioni in materia di gestione delle risorse materiali:
- acquisti di beni e servizi per l’amministrazione periferica e gli uffici giudiziari;
- gestione delle risorse materiali, dei beni e servizi dell’amministrazione periferica e degli uffici giudiziari;
- attività connesse all’onere delle spese per la gestione degli uffici giudiziari a norma dell’articolo 1, secondo comma, della legge 24 aprile 1941, n. 352;
- predisposizione e attuazione dei programmi per l’acquisto, la costruzione, la permuta, la vendita, la ristrutturazione di beni immobili adibiti ad uffici giudiziari.
È stato sostenuto che la normativa de qua non ha avuto effettiva portata innovativa e non ha sciolto i vari nodi interpretativi e di prassi tipici della cd. doppia dirigenza.
Infatti, il Ministero, anche dopo la legge di bilancio 2020, ha continuato a delegare la stipula dei contratti al capo dell’ufficio, con il conseguente obbligo da parte di quest’ultimo di eseguire la delega attribuitagli dal Direttore generale delle risorse materiali e delle tecnologie. E ciò ha imposto di esercitare, nei confronti del personale amministrativo e quindi anche del dirigente amministrativo, una stringente attività di controllo e di impulso, in qualche modo in contrasto con la ratio del d.l. 240 del 2006.
Ma, secondo alcuni commentatori, anche la piena attuazione della legge di bilancio 2020, con attribuzione in via esclusiva al dirigente amministrativo della delega per la stipula dei contratti, avrebbe fatto emergere le problematiche tipiche delle strutture il cui vertice non è unico ma duplice (ad es. problema del datore di lavoro e degli uffici del GDP e UNEP).
Solo una più chiara e definitiva descrizione delle rispettive competenze anche in tema di delega e una piena attuazione, senza ambiguità di prassi, della scelta operata, unita a un modello condiviso di soluzione dei conflitti, potrebbe essere in grado di chiudere la stagione della cd. doppia dirigenza e dare vita effettivamente a una dirigenza integrata, ossia caratterizzata, come detto, da una dimensione relazionale e dialettica.
Permangono, dunque, le ambiguità e i nodi da sciogliere:
- le pesanti scoperture della figura del dirigente amministrativo (v. sopra);
- il superamento della cd. Circolare Castelli (all’epoca indispensabile) in caso di scopertura o assenza del dirigente amministrativo (va abbandonato il deficitario modello della reggenza): sarebbe necessario istituire il funzionario vicario in grado di sostituire il dirigente assente o mancante per garantire continuità, ovvero dare vita al dirigente circondariale o distrettuale (con le conseguenti economie di scala e un coordinamento tra uffici); resta fermo che in caso di assenza temporanea del dirigente sarà il personale di area terza a svolgere le funzioni vicarie nell’ambito delle direttive del titolare;
- l’attuale affidamento al solo capo dell’ufficio dei compiti di gestione amministrativa degli uffici del GDP e uffici NEP;
- l’insufficienza del criterio discretivo delle competenze fondato unicamente sulla distinzione, di principio, fra competenze attinenti alla giurisdizione in senso proprio e quelle concernenti la gestione del personale amministrativo e l’utilizzo delle risorse strumentali: tale criterio non permette di descrivere e delimitare in concreto e chiaramente i rispettivi campi di intervento (ad es. datore di lavoro, FUA, sicurezza luoghi lavoro ex d.l. 9.4.2008, n. 81, “poteri di gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali”, formazione sulla sicurezza, evacuazione d’urgenza ecc.); tale criterio, infatti, non sembra essere risolutivo delle situazioni di contrasto, conseguenti alle divergenze sulle modalità in concreto da attuare per il conseguimento degli obiettivi attinenti all’esercizio della giurisdizione;
- la piena attuazione del d.l. 160 del 2006 in tema di funzionario delegato;
- la questione aperta del datore di lavoro (v. sopra);
- le questioni interne: graduazione delle posizioni, retribuzione accessoria, gestione della mobilità e decentramento; da ultimo, questione della nuova configurazione delle mansioni dei direttori di cancelleria.
3. I momenti di raccordo.
3.1 Il primo momento di raccordo tra dirigente amministrativo e capo dell’ufficio è rappresentato dal Programma annuale delle attività.
L’art. 4 d.lgs 240/2006 dispone che “non oltre il 15 febbraio di ciascun anno, il magistrato capo dell’ufficio giudiziario ed il dirigente amministrativo ad esso preposto redigono, tenendo conto delle risorse disponibili ed indicando le priorità, il programma delle attività da svolgersi nel corso dell’anno. Il programma può essere modificato, durante l’anno, su concorde iniziativa del magistrato capo e del dirigente, per sopravvenute esigenze dell’ufficio giudiziario”.
La collocazione della norma e le differenze lessicali rispetto all’art. 2 sulla gestione delle risorse umane sembrerebbero condurre alla conclusione secondo la quale il programma annuale dovrebbe avere a oggetto essenzialmente gli interventi futuri in tema di risorse finanziarie e strumentali e, in particolare, gli interventi di manutenzione (minuta e straordinaria), individuati dalla Conferenza permanente.
In realtà, nel documento in questione vanno delineate le linee programmatiche e di azione dell’ufficio anche avuto riguardo alle risorse umane, soprattutto se legate a progetti di performance e, più in generale, vanno descritte le eventuali innovazioni organizzative o tecnologiche, magari collegate a protocolli e/o convenzioni con enti esterni, sia che impattino in via esclusiva sul versante amministrativo, sia che intercettino anche il servizio giurisdizionale. Inoltre, l’atto deve contenere le iniziative volte alla prevenzione della corruzione e a garantire la trasparenza.
Al fine di dare contenuto alla nozione di dirigenza integrata si può tentare di indicare un possibile metodo di lavoro per la redazione del programma delle attività.
La norma di riferimento non offre alcuno spunto metodologico, ma si limita a prescrivere che il capo dell’ufficio e il dirigente “redigono”, oltre alla concordanza tra i due soggetti in caso (raro) di modifiche.
L’impostazione della presente conversazione impone di escludere che la redazione “a quattro mani” si possa sostanziare esclusivamente nella doppia firma. Non ci si deve limitare a una formale doppia assunzione di responsabilità, con redazione dell’intero scritto da parte del dirigente e trasmissione al capo dell’ufficio per modifiche o integrazione o sottoscrizione.
“Redigono” non può che significare “ideano, progettano, predispongono assieme” il programma, senza necessariamente che l’atto debba essere suddiviso in settori di competenza, anche se tale metodo di lavoro non può essere escluso in radice.
Se così è, la redazione in comune deve essere preceduta da una o più riunioni in comune, eventualmente con direttori di cancelleria, responsabili delle cd. performance, o con magistrati, fra i quali ad es. i magrif, o con il personale interessato a particolari progetti.
Le riunioni, aventi a oggetto l’analisi della situazione e i progetti futuri, possibilmente vanno verbalizzate per poi trasfondere alcuni contenuti nel programma.
Una riunione finale in comune poi potrà fissare gli obiettivi e le priorità.
La bozza potrà essere poi redatta nell’ambito di una cartella condivisa in modo da poter intervenire in tempo reale su eventuali integrazioni e modifiche: segue l’approvazione e il deposito finale del programma.
Ma il successo di tale metodologia, ovviamente, passa attraverso la consuetudine nell’uso del metodo del confronto e della condivisione tra dirigente e capo dell’ufficio. Oggi, ancor più necessaria in tempi di PNRR.
Ma non si può nascondere che il programma delle attività, anche se nel modo condiviso test è descritto, nasconda in sé alcune criticità.
Una criticità dell’attuale sistema è rappresentata dalla dilatazione dei tempi, posto che, nei fatti, la Direttiva del Ministro, viene emanata non prima della fine di febbraio, mentre scade prima il termine entro il quale il dirigente amministrativo e il Capo Ufficio devono redigere il c.d. “Programma annuale delle attività” ex art. 4 del D.lgs. n. 240/06.
Altra criticità riguarda i contenuti, in quanto i documenti di programmazione predisposti a livello centrale non sempre forniscono, in modo dettagliato, gli elementi necessari per una corretta fissazione degli obiettivi. Una tale circostanza ha un impatto negativo sul processo di formulazione degli obiettivi e, più in generale, sul ciclo delle performance.
È indispensabile, come si dirà, una forte sinergia tra il dirigente e il capo dell’Ufficio nella definizione del programma di gestione, ex art. 37, del programma delle attività, ex art. 4 del D.lgs. n. 240/06, e di ogni altra attività di pianificazione dell’ufficio, come per il progetto organizzativo dell’ufficio per il processo.
Con riferimento ai documenti organizzativi, a mio avviso, vi è l’esigenza di far convergere, in modo chiaro, in unico documento annuale tutti gli elementi richiesti dalle disposizioni normative, funzionale rispetto all’ottimizzazione dei tempi di redazione e all’allineamento dei processi decisionali.
Resta necessaria, però, una flessibilità nella declinazione degli obiettivi di massima, tenendo conto del contesto specifico locale e delle risorse disponibili.
3.2. Il secondo momento di raccordo coincide con i cd. atti di indirizzo del capo dell’ufficio.
È noto che l’art. 2 d.lgs 240/2006 prevede che il dirigente amministrativo deve gestire le risorse umane “in coerenza con gli indirizzi del magistrato capo dell’ufficio e con il programma annuale delle attività di cui all’articolo 4.”.
Questa disposizione consente al presidente del Tribunale di indicare al dirigente le linee generali sulla base delle quali questi dovrà gestire le risorse umane.
Dovranno essere atti di indirizzo teleologicamente e direttamente collegati alla migliore gestione dell’attività giurisdizionale e del servizio giustizia in generale.
Credo, in nome ancora una volta dell’impostazione di fondo di questa conversazione, di dover escludere che gli atti di indirizzo in parola possano essere estesi anche alla gestione delle risorse finanziarie e strumentali e quindi agli interventi di manutenzione.
Si tratta, a mio avviso, di atti scritti di pianificazione a contenuto generale e coerenti con il DOG, il programma di gestione e, come dice la norma, con il programma delle attività, riguardanti, ad es. le esigenze di personale per l’assistenza alle udienze penali dibattimentali.
L’uso della locuzione “in coerenza”, a mio parere, esclude che sulla norma in esame si possa fondare un rapporto di gerarchia tra dirigente e capo dell’ufficio in tema di utilizzo delle risorse umane.
3.3. Il terzo momento di raccordo è integrato da un insieme di atti: il programma di gestione ex art. 37, il D.O.G., la segnalazione tabellare, il progetto organizzativo della Procura e la relazione per inaugurazione anno giudiziario.
Se andiamo a confrontare il testo dell’accordo sull’utilizzazione FUA del 2019 (sul 2018) con il testo dell’analogo accordo 2024 (sul 2022), notiamo una differenza forse significativa. Nel primo accordo la distribuzione 80% dei compensi per produttività e merito va determinata anche in base agli obiettivi previsti in almeno uno dei seguenti documenti: piano delle performance, DOG, progetto organizzativo della Procura, programma di gestione ex art. 37, programma annuale delle attività e programmi di best practices: ciò a significare la stretta relazione tra i vari atti. Nel testo dell’accordo 2024 (sul 2022) i documenti di riferimento per l’80% dei compensi sono solamente il piano della performance e i programmi di best pratices: sono scomparsi il DOG, il programma ex art. 37 ecc.
Al di là delle ragioni di tale esclusione, credo di poter affermare, traendo spunto dalla prassi precedente, che anche il momento della redazione da parte del capo dell’ufficio del DOG, della segnalazione tabellare, del progetto della Procura, del programma ex art.37 e finanche della relazione per inaugurazione anno giudiziario, il dirigente amministrativo deve essere pienamente coinvolto e si deve evitare di trasmettere a quest’ultimo la bozza oramai completa pochi giorni del termine di deposito. Credo, per tutto quello stiamo andando dicendo, che siano intuitive le ragioni che consigliano di interpellare il dirigente nell’ambito della redazione di tali fondamentali documenti organizzativi.
Se il coinvolgimento e la condivisione non dovranno avere quelle caratteristiche forti tipiche del programma delle attività, credo, tuttavia, che spetti al capo dell’ufficio esporre al dirigente le linee generali e di dettaglio dei vari atti, soprattutto laddove esse possano interferire con la gestione delle risorse umane (e/o più raramente con la gestione delle risorse finanziari o strumentali) o possano avere necessità di ausilio della risorsa amministrativa (ad es. incremento numerico della pianta organica di una sezione a discapito di altra, smaltimento di arretrati, innovazioni informatiche ecc.).
Vi sono poi alcuni casi di necessaria condivisione previsti espressamente dalla legge:
- l’art. 37 legge 111 del 2011, sebbene tra i soggetti che debbono essere sentiti dal capo dell’ufficio non sia indicato il dirigente, fa esplicito riferimento, al comma 1 e al comma 2, al programma annuale delle attività;
- il DOG (art. 6 Circ. Tab. 2024) parte “dall’analisi dello stato dei servizi..” e contiene (art. 7 lett. c) “la relazione sull’andamento dei settori amministrativi connessi all’esercizio della giurisdizione e sulla sua incidenza rispetto al raggiungimento degli obiettivi programmati” e l’organizzazione degli uffici per il processo, sentito il dirigente amministrativo (artt. 10, 11 e 12);
- la redazione della segnalazione tabellare deve essere preceduta da una relazione del dirigente “in ordine alle cause delle eventuali disfunzioni relative al settore di competenza” (art. 15 e “contributo valutativo” ex art. 17);
4. La strumentalità.
In cosa si traduce la strumentalità dell’attività amministrativa rispetto a quella giudiziaria?
Credo che occorra abbandonare la tradizionale nozione di funzione ancillare dell’attività amministrativa rispetto a quella giurisdizionale, intesa come ausiliaria, subordinata, di mero servizio.
La strumentalità va apprezzata con un significato moderno, nel senso di “esecuzione per mezzo di…” (ricordate la seconda colonna del potere giudiziario nella RFT !!!, metaforicamente si può pensare ad un arco e alla chiave di volta).
Si possono enucleare alcuni casi paradigmatici, tratti dalle esperienze quotidiane negli uffici, nei quali la cd. strumentalità deve essere declinata in modo equilibrato nel senso sopra descritto, pena, in caso contrario, un servizio inefficiente: si pensi, ad esempio, alla necessità di incrementare udienze penali per raggiungere target PNRR e limiti di impiego e di orario del personale amministrativo; si pensi all’aumento duraturo delle sopravvenienze in un determinato settore o sezione (ad es. famiglia) e la conseguente necessità di incrementare il numero delle risorse all’interno della corrispondente cancelleria.
In definitiva, l’applicazione del criterio di strumentalità è il banco di prova di una vera dirigenza integrata.
5. La valutazione del Dirigente e il nuovo parere per le funzioni direttive.
I sistemi di valutazione sinora adottati (DD.MM. 10 maggio 2018 e 23 dicembre 2021) prevedono che negli uffici giudiziari il Dirigente amministrativo sia valutato dal Capo dell’Ufficio di riferimento, così come il dirigente è valutatore del personale non dirigenziale assegnato all’ufficio. Non si può non rilevare, in proposito, che, mentre la valutazione del personale scaturisce dalle funzioni di direzione e gestione del dirigente-datore di lavoro, nel rapporto tra Capo dell’Ufficio e dirigente amministrativo non sussiste un rapporto gerarchico alla luce di quanto osservato in relazione al d.l. 240/2006 e norme successive.
Occorre, quindi, individuare una soluzione che consenta, da un lato, di far in modo che il Capo dell’Ufficio abbia un ruolo rilevante nell’ambito del processo di valutazione e, dall’altro, di non configurare, neppure indirettamente, un rapporto gerarchico tra le due figure, garantendo la conservazione della reciproca autonomia.
La possibile contraddizione (valutatore non superiore gerarchico) può essere risolta alla luce delle più recenti circolari della PA (e quindi anche del Ministero della Giustizia) in tema di valutazione di performance individuali o di gruppo che, sull’onda di esperienze europee, hanno posto l’accento sull’adozione di modalità di valutazione che vadano oltre la sola valutazione del superiore gerarchico e che coinvolgano una pluralità di soggetti interni o esterni all’organizzazione.
Se letta in tal modo, la valutazione del Capo dell’Ufficio come “utente interno” nei confronti del Dirigente può sciogliere le antitesi logiche e può evitare possibili contrapposizioni personali.
È stata proposta altra soluzione: considerare il Capo dell’Ufficio come “istruttore” del processo di valutazione con il compito di acquisire e sistematizzare gli elementi utili per la valutazione della performance individuale del dirigente amministrativo.
In ogni caso, è sperabile che il soggetto valutatore dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari venga individuato in una figura dirigenziale di livello generale appartenente all’amministrazione centrale (ad esempio, il Direttore generale del personale).
Come è stato osservato, il procedimento di valutazione dei Dirigenti va valorizzato potenziando nei valutatori la consapevolezza della sua utilità quale strumento di realizzazione di valore pubblico: il sistema è funzionale al miglioramento delle performance individuali e, conseguentemente, al miglioramento continuo dell’azione amministrativa di cui dirigenti sono attori. Vanno organizzate occasioni di formazione sul sistema di valutazione, affinché ne sia colta la finalità proattiva per l’interesse pubblico della buona amministrazione, che giustifica la finalità premiante per il Dirigente positivamente valutato.
Venendo alla valutazione del dirigente sull’operato del magistrato, l’art. 46 sexies del d.l. 160/2006, introdotto con l’art. 5 del d.l. 44/2024, ha aggiunto tra le fonti di conoscenza ai fini del conferimento degli incarichi direttivi (non semidirettivi) il parere del dirigente amministrativo assegnato al medesimo ufficio, accanto ai pareri del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dei magistrati dell’ufficio.
I pareri dei magistrati e dei dirigenti vanno acquisiti in forma semplificata e riservata, escluso l’anonimato; i pareri dei dirigenti amministrativi vertono esclusivamente su fatti specifici relativi all’organizzazione dell’ufficio e ai rapporti con il personale e vanno redatti entro 10 giorni dalla comunicazione del capo dell’ufficio del concorrente della notizia della presentazione della domanda. Se il parere è ritenuto rilevante dal Consiglio Giudiziario, esso va comunicato all’interessato per eventuali osservazioni o istanza di audizione entro 10 giorni.
Ci si deve chiedere, a questo punto, se è nata così una sorta di reciprocità rispetto alla valutazione sulle performance; se è stato raggiunto un certo riequilibro delle posizioni.
Il dirigente amministrativo può essere visto come utente interno? Sono comparabili la valutazione e il parere? Le risposte, credo, debbano essere negative. La valutazione delle performance ha carattere continuativo ed entra in modo pieno nella relazione tra dirigente e capo dell’ufficio, anche senza poter giustificare, come detto, un rapporto gerarchico, laddove il parere sul magistrato aspirante alla funzione direttiva è estemporaneo, collegato ad un determinato concorso e limitato a specifici elementi di giudizio.
6. I casi di inerzia e contrasto.
Una significativa criticità insita nel modello della dirigenza integrata risponde al seguente quesito: cosa avviene in caso di inerzia e di contrasto tra Dirigente e Capo dell’ufficio?
L’attuale ordinamento non prevede strumenti interni o esterni destinati alla soluzione dei conflitti tra capo dell’ufficio e dirigente amministrativo, fatto salvo quanto previsto dall’art. 4, comma 2, d.lgs. 240/2006, secondo il quale, in caso di omessa presentazione o di mancata esecuzione del programma annuale delle attività (o di omesse indispensabili modifiche di questo), il Ministro fissa un termine perentorio al capo dell’ufficio e al dirigente per provvedere e in mancanza incarica il Presidente della Corte di Appello e il dirigente amministrativo della stessa Corte a intervenire in via sostitutiva.
A ben vedere, dal punto di vista normativo, si tratta di un caso di conflitto apparente. La norma sembra riferirsi letteralmente ai casi di inerzia di entrambe le figure, ma nulla esclude che vada applicata anche nel caso in cui l’omessa presentazione o esecuzione del programma dipenda dall’inerzia del solo capo dell’ufficio ovvero del solo dirigente.
Si possono individuare alcuni potenziali aree di intervento nelle quali potrebbero verificarsi casi di inerzia o contrasto, con ricadute concrete sul servizio: in sede di redazione del Programma annuale (o relazione ex art. 37 o per DOG e segnalazione tabellare); di fronte agli atti di indirizzo del capo dell’ufficio; nell’ambito dell’impiego degli addetti UPP; in relazione ai compiti in seno alla Conferenza Permanente; in caso di interventi di urgenza; con riferimento a eventuale istanza di annullamento/revoca di un provvedimento del dirigente in tema di risorse umane depositata da personale amministrativo e rivolto al capo dell’ufficio (v. risposta a quesito del CSM 1.6.2017).
I possibili rimedi in caso di contrasto, in assenza, come abbiamo visto, di una esaustiva previsione legislativa sono in via alternativa o cumulativa, a seconda delle caratteristiche del caso concreto: una segnalazione all’organo disciplinare; un motivo per un provvedimento di non conferma del direttivo; un’attivazione dell’Organismo indipendente della valutazione delle perfomance e/o del CSM e/o del Ministero (con i relativi rischi per autonomia e indipendenza del magistrato coinvolto); un ricorso a un organismo terzo e indipendente.
Tale ultima scelta appare preferibile, anche se la necessità, talvolta, di interventi d’urgenza dovrebbe condurre alla creazione di un nuovo organo collegiale, misto, snello e con procedure deformalizzate e semplificate.
Invero, si possono verificare anche potenziali casi di inerzia o contrasto che producono immediate ricadute concrete sul servizio: si pensi ai casi di urgenza (es. caso del blocco dell’impianto di condizionamento). Pur avendo presente la delibera del CSM 14.6.2017 che afferma che Capo dell’Ufficio e Dirigente rappresentano due centri di responsabilità all’interno del medesimo ufficio, con la conseguenza che gli atti di indirizzo del primo non si traducono in un rapporto gerarchico tra le due figure, alcuni sostengono che in caso di inerzia o di palese negligenza del dirigente amministrativo in casi come quelli dell’esempio prospettato aut similia, sebbene non si possa prevedere un potere sostitutivo del capo dell’ufficio, quest’ultimo potrebbe, invocando l’art. 16, comma 1, d.lgs. 165/2001 (poteri di controllo del direttore generale del Ministero sull’operato dei dirigenti amministrativi e RUP) e l’art. 21 medesimo d.l. (potere di revoca del direttore generale), chiedere al Ministero la sostituzione e/o la revoca del dirigente amministrativo inerte.
Tale soluzione, peraltro, non appare priva di controindicazioni: manca una norma specifica che preveda una tale soluzione, manca un principio di reciprocità, non risolverebbe i casi di urgenza e andrebbe garantito il diritto di difesa del dirigente.
Ma si possono individuare anche casi di potenziale conflitto, con ricadute sul rapporto di fiducia tra capo dell’ufficio e dirigente, ad esempio in relazione alla valutazione delle perfomance ovvero in caso di parere del dirigente a fronte di una domanda per un incarico direttivo.
Sotto il profilo in esame, gli esiti del monitoraggio al quale si è accennato in precedenza sono i seguenti:: “Quanto alla domanda avente a oggetto l’individuazione del soggetto chiamato a intervenire in caso di inerzia o criticità nella redazione della relazione sul programma delle attività, nonché, alla associata domanda concernente l’indicazione del soggetto chiamato a dirimere eventuali contrasti su singoli atti di gestione delle risorse umane e materiali, sebbene la maggioranza sia a favore dell’intervento del Ministero o di un organismo terzo, è molto significativo che circa 25 persone (su 76), quindi circa il 30%, ritenga che debba intervenire lo stesso capo dell’ufficio”
7. Gli addetti all’Ufficio per il processo (UPP).
Quando nel 2006 il legislatore ha tentato di tracciare in modo più chiaro i confini delle rispettive competenze tra capo dell’ufficio e dirigente amministrativo, l’ufficio per il processo e gli addetti UPP neppure si vedevano all’orizzonte.
Oggi, all’esito di un percorso normativo e di prassi iniziato nel 2012 (d.l. 179/2012, conv. l. 221/12, art. 16 octies abrogato dal d.lgs. 10.10.22, n. 151, in attuazione l. 206/21 e l. 134/21), credo di poter affermare che l’Ufficio per il processo, con i suoi nuovi addetti (art. 11 d.l. n. 80/2021 conv. in l. 113/2021), rappresenti il terreno ove maggiori possono essere, da un lato, le occasioni di conflitto tra dirigente e capo dell’ufficio e, dall’altro, le opportunità per realizzare una vera e propria dirigenza integrata e condivisa.
Invero, fin dall’origine, la normativa in tema di ufficio per il processo, da un lato, non si è preoccupata di mostrarsi coerente con le linee programmatiche del 2006 e, dall’altro, però, ha offerto ai due dirigenti numerose occasioni per lavorare in modo condiviso.
Già il Decreto Ministro Giustizia 01/10/2015, attuativo dell’Ufficio per il processo, articolo 2 punto 1, aveva previsto che “Il dirigente amministrativo adotta le misure di gestione del personale di cancelleria coerenti con le determinazioni del capo dell’ufficio”, salvo poi statuire, articolo 2 punto 4, che “Il coordinamento e il controllo delle strutture organizzative di cui al comma 1 sono esercitati dai presidenti di sezione, o dai giudici delegati allo svolgimento dei predetti compiti”.
E non occorre ribadire che dell’Ufficio per il processo fanno parte “oltre che i giudici ausiliari o i giudici onorari di tribunale o coloro che svolgono lo stage di cui all’art. 73 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69.” anche “il personale delle cancellerie o delle segreterie giudiziarie” (art. 4 d.l. 151/22), il cui coordinamento e controllo sarebbe, per legge, di competenza del dirigente amministrativo.
Sulla stessa linea è il citato decreto legislativo n. 80 del 2021, convertito con mod. in l. n. 113/21, secondo il quale, all’art. 12, comma 3, all’esito dell’assegnazione degli addetti all’UPP il capo dell’ufficio, di concerto con il dirigente, predispone un progetto organizzativo che prevede l’utilizzo degli addetti all’interno degli UPP.
Ancora, coerente con tale impostazione è il decreto legislativo n. 151 del 2022. All’art. 3, comma 1, viene previsto che il capo dell’ufficio redige il progetto organizzativo dell’UPP, sentiti i presidenti di sezione e il dirigente amministrativo, contenente analisi dei flussi, criticità, priorità, obiettivi, azioni per realizzarli e “individua il personale da assegnare agli uffici, di concerto con il dirigente amministrativo”. All’art. 3, comma 2, si prevede poi che “il capo dell'ufficio, anche avvalendosi dei magistrati da lui individuati, dirige e coordina l’attività degli uffici per il processo e degli uffici spoglio, analisi e documentazione; promuove e verifica la formazione del personale addetto nel rispetto della normativa relativa a ciascun profilo professionale.” Ciò, senza alcuna preventiva interlocuzione con il dirigente amministrativo preposto alla gestione del personale nel medesimo ufficio. All’art. 4, comma 2, si prevede che ciascun componente dell’UPP deve svolgere i compiti assegnati “secondo quanto previsto dalla normativa anche regolamentare e dalla contrattazione collettiva che regolano la figura professionale cui appartiene”. All’art. 11 si stabilisce che i vari componenti dell’UPP svolgono anche “attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria e di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi degli uffici giudiziari”.
Sebbene non vada dimenticato che l’Ufficio per il processo ha come finalità espressa (art. 2 d.l. 151/22) quella di “garantire la ragionevole durata del processo attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione” e, quindi, una finalità di carattere generale e necessariamente condivisa sia dalla giurisdizione che dalla amministrazione, non si può fare a meno di sottolineare che l’intero impianto normativo fin dall’origine ha presentato alcune ambiguità e alcune ibridazioni che poi nella prassi si sono tradotte spesso in un impiego dei componenti dell’UPP non omogeneo su tutto il territorio nazionale e/o non sempre rispondente alla descritta finalità. E tale criticità si è manifestata con maggiore nitidezza nell’assegnazione delle mansioni degli addetti e nella distribuzione delle competenze tra dirigente amministrativo e capo dell’ufficio.
Quanto alle mansioni degli addetti, secondo alcuni commentatori la tesi del cd. ibridismo non sarebbe fondata in quanto le attività elencate nell’Allegato II, n. 1 del d.l. 80/2021 e nell’art. 5 del d.l. 151/2022 non ineriscono alle funzioni, cioè alle prestazioni lavorative, che normalmente espleta il personale di cancelleria. Esse riguardano invece attività che sono normalmente da compiersi dal giudice e lo sono quali attività preparatorie rispetto al momento decisionale o comunque all’adozione del provvedimento con cui il giudice è chiamato a esternare la sua funzione. D’altronde, lo stesso allegato, coerentemente con quanto emerge dall’elenco delle funzioni, mostra di porre gli addetti in una posizione che rappresenta qualcosa di diverso da quella del personale addetto alle cancellerie, proprio là dove si chiude con la previsione della funzione di “raccordo con il personale di cancelleria”. È palese che tale funzione pone gli addetti come “altro” rispetto al personale di cancelleria e lo fa proprio perché i compiti in precedenza elencati e da svolgere sono estranei a quelli del detto personale ed espressione delle attività di competenza del giudice. Ad es. anche l’attività che viene definita come organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo, secondo tale orientamento, è ed era un’attività di cui il giudice è ed era responsabile e, dunque, di sua spettanza e non certo di spettanza del personale di cancelleria e meno che mai ad essa delegabile. Se anche per il suo espletamento il giudice poteva avvalersi dell’ausilio del personale ordinario (sempre per la posizione custodiale del medesimo), l’aiuto non poteva certo concernere l’organizzazione di fascicoli, udienze e ruolo, ma solo le attività prodromiche all’esercizio in concreto del potere organizzativo.
La realtà degli uffici, invece, ci ha consegnato, nella maggior parte dei casi, un modello ibrido, caratterizzato cioè da una coesistenza tra attività amministrativa e attività di supporto alla giurisdizione.
È evidente che se si sposa la tesi della funzione giurisdizionale pura, la scelta sulle mansioni degli addetti non può che essere affidata unicamente al capo dell’ufficio e/o ai presidenti di sezione o magistrati coordinatori o delegati, dando così una lettura alle norme di riferimento sopra richiamate che vedono il capo dell’ufficio in una sorta di posizione di primazia sul dirigente amministrativo.
Se si ritiene che la figura dell’addetto UPP sia caratterizzata mansioni ibride, allora la lettura delle norme di riferimento impone un maggiore coordinamento nelle scelte tra dirigente amministrativo e capo dell’ufficio.
Oggi, tuttavia, credo che il fulcro della questione si sia spostato dalla natura delle mansioni (ibride o meno) all’individuazione delle percentuali di attività giurisdizionale rispetto all’attività amministrativa, con applicazione, oramai credo consolidata, del criterio della prevalenza delle prime sulle seconde (v. anche ultima circolare del CSM 13.6.2024 Linee guida per l’Ufficio per il processo ex art. 50 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90), con rapporti di percentuale non sempre facilmente quantificabili e comunque diversi da ufficio a ufficio.
In tale ottica gli ordini di servizio con il dettaglio delle mansioni degli addetti UPP non possono che essere frutto di concertazione tra capo dell’ufficio e dirigente amministrativo. Anche il controllo e la verifica del lavoro svolto, soprattutto ai fini degli obiettivi PNRR, non può che spettare a entrambi i dirigenti in modo coordinato.
Se anche si volesse rifiutare la tesi dell’ibridismo delle mansioni, il carattere ibrido torna in campo se si pone mente al fatto che, come è stato osservato, la peculiarità che connota gli addetti discende dal fatto che essi sono personale incardinato nell’amministrazione giudiziaria come il personale amministrativo di cancelleria ordinario. Ciò implica che la gestione del rapporto di lavoro (regolato dal CCNL Funzioni centrali 9.5.2022), per quanto attiene ai diritti che ne discendono (congedi, smart working, permessi, orario di lavoro, anche straordinario ex art. 62, formazione ecc.) compete all’organizzazione amministrativa dell’ufficio giudiziario presso il quale sono assegnati e, quindi, se presente, al dirigente amministrativo.
Peraltro, secondo un criterio di reciprocità, avendo le scelte del Dirigente amministrativo in tema di gestione del rapporto di lavoro dell’addetto UPP evidenti ricadute sulla percentuale di supporto alla funzione giurisdizionale (basti pensare all’orario di lavoro o alla concessione di smart working o di congedi), lo stesso dirigente, nell’esercizio dei poteri relativi al detto rapporto di lavoro, dovrà necessariamente coordinarsi e sentire il parere del “giudice”, cioè del dirigente dell’UPP, cioè della struttura in cui l’addetto esercita i suoi compiti e le sue mansioni.
Il tema delle performance e quello connesso della valutazione sono quelli nel quale l’ibridismo tipico degli addetti UPP trova la sua maggiore espressione. Il progetto di performance degli addetti, in quanto dipendenti amministrativi, deve essere predisposto dal dirigente amministrativo o dal delegato (ad es. direttore di cancelleria). La conseguente valutazione dei risultati (max 70/100) e dei comportamenti organizzativi (max 30/100) spetta pure al dirigente.
Tuttavia, tenuto conto delle ormai obbligatorie prevalenti mansioni di supporto ai giudici, il programma non può che coinvolgere anche il giudice coordinatore o il collegio o la sezione supportata, a meno di non voler organizzare progetti relativi solamente alla residuale attività amministrativa, il che non avrebbe molto senso.
Ne deriva che anche sotto il profilo delle performance e per quel che concerne la valutazione, sia in sede di ideazione e redazione, sia in sede di verifica dell’esecuzione e appunto di conseguente valutazione, occorre un coordinamento e una condivisione di intenti tra dirigente amministrativo e capo dell’ufficio, in deroga a quanto previsto per l’ordinario personale amministrativo, in relazione al quale i progetti e la valutazione vedono il coinvolgimento del capo dell’ufficio solamente nel quadro del programma annuale delle attività ovvero in caso di progetti incidenti direttamente sull’attività giurisdizionale.
In tale contesto, sono intervenute alcune circolari ministeriali che vanno tenute in considerazione e analizzate.
Secondo la Circolare 3 novembre 2021, gli addetti all’UPP, seppur a tempo determinato, hanno un orario di lavoro di 36 ore settimanali, articolato, salvo esigenze peculiari, su 5 gg. settimanali (art. 17 dell’attuale CCNL del comparto funzioni centrali) e hanno accesso a tutti i sistemi informatici utili a svolgere le proprie mansioni (registri di cancelleria, consolle assistente ecc.) possedendo account per ADN, fruendo ed avvalendosi quindi di tutti gli strumenti tipici dei funzionari giudiziari; ancora, hanno un inquadramento «in specifici profili professionali di nuovo conio, istituiti ex lege, con modalità derogatrici della generale disciplina delle fonti»; le deroghe si sostanziano nel «potere svolgere lavoro agile anche in deroga alla normativa di settore (articoli 13, comma 3, e 17, comma 3, del decreto-legge n. 80/2021)» e nel «maggiore regime di flessibilità oraria, derogando alla richiesta del consenso dell’interessato per il lavoro pomeridiano (articolo 13)»; la clausola generale che rinvia al “raccordo con il personale addetto alle cancellerie”, sistematicamente interpretata avendo riguardo alla collocazione ordinamentale, quale personale amministrativo di terza area, delinea questo nuovo profilo professionale come “ponte” tra il momento decisionale propriamente detto (di imprescindibile spettanza del magistrato giudicante, sia pure in una nuova logica corale nella preparazione e nell’istruttoria) e la corposa attività amministrativa che questo momento precede e segue (es. spoglio delle nuove iscrizioni, verifica dei presupposti di priorità di trattazione, “scarico” dell’udienza del magistrato a cui si è assegnati, attività di notifica e comunicazione alle parti nei fascicoli del magistrato a cui si è assegnati, accertamento della definitività del provvedimento); «la logica del sistema, come evidenziata già dalla lettera della legge, delinea un generale ventaglio di mansioni nelle quali per la prima volta vi è una netta prevalenza di attività specificamente dedicate e orientate al supporto diretto della funzione giurisdizionale (studio fascicoli, preparazione di bozze provvedimentali, ecc.), rispetto a mansioni propriamente e storicamente definibili come “amministrative”.
In sede di visione futura, prospettica, si può così concludere.
Come è stato osservato (Castelli), attualmente si scorge una certa separatezza tra le diverse articolazioni ministeriali, che non comunicano tra di loro e che non riescono a dare piena coerenza ai diversi interventi normativi e organizzativi. Inoltre, ma forse inevitabilmente, la digitalizzazione sta diventando il “vero decisore e gestore occulto”, facendo prevalere una direzione solo apparentemente tecnica che non dialoga e non conosce appieno le esigenze degli operatori del diritto. Occorre – è stato auspicato (Castelli) – una nuova governance coinvolgente, che parta anche dal basso. Gli interventi messi in campo con il PNRR, pur lodevoli, non paiono sufficienti per le note criticità (tempo determinato per gli addetti, abbandono frequente, numero insufficiente, formazione a macchia di leopardo, difficoltà di inserimento, potenziali contrasti tra settore giurisdizionale e amministrativo, scarsa efficacia in molti uffici del progetto PON Governance delle Università ecc.). Nonostante tali segni negativi, il PNRR va visto come occasione per un passo in avanti in tema di formazione, per superare le ambiguità normative successive al 2006 e per realizzare dal basso una serie di regole che possano “realizzare una vera direzione integrata tra magistrato capo dell’ufficio e dirigente amministrativo” che crei “comunanza di intenti, sinergia e valorizzazione dei ruoli”, soprattutto in tema di innovazione tecnologica e informatica, di raccolta dei dati statistici, di analisi e di monitoraggio della quantità e qualità del servizio.
Ma, al di là della necessaria comunanza di intenti e del reciproco riconoscimento dei rispettivi punti di vista, per superare le criticità evidenziate occorre ridurre in modo significativo le scoperture e introdurre figure nuove, quali quella del dirigente vicario o quella del dirigente distrettuale aut similia.
Dirigenza integrata. Bilancio ambiguità e nodi da sciogliere.pdf | 389 Kb