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Magistratura Indipendente

CIVILE  

Danno non patrimoniale di lieve entità e principio di solidarietà

  Civile 
 lunedì, 4 luglio 2016

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LORENZO DELLI PRISCOLI

 
 

SOMMARIO: 1. La non risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità. - 2. Principio di solidarietà e dovere di tolleranza. - 3. Il danno non patrimoniale di lieve entità provocato intenzionalmente. - 4. Il danno biologico di lieve entità nel codice delle assicurazioni.

       1. La non risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità.
     Negli ultimissimi anni si è assistito, ad opera sia della giurisprudenza della Cassazione che della Corte costituzionale che della legislazione in materia assicurativa, al prepotente sorgere di un nuovo principio in tema di danni non patrimoniali, quello secondo cui per la loro risarcibilità non è sufficiente soltanto che il danno si sia verificato e che la sua risarcibilità sia prevista dalla legge (nella sua interpretazione letterale o costituzionalmente orientata), ma occorre anche che questo danno assuma una consistenza tale da poter essere definito “serio”, ossia in grado di giustificare l’intervento dell’attività del giudice.
      Secondo la Cassazione, la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone da un lato che la lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai doveri di solidarietà sociale) e dall’altro che il danno non sia “futile” (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario: in altre parole che sia “serio”) . Appare di immediata evidenza come, in base a questi due criteri, il giudice sia chiamato ad una complessa valutazione in base alla quale, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, occorre non più solo verificare se il danno si sia effettivamente realizzato ma anche e soprattutto che esso abbia raggiunto una soglia minima di serietà (o, detto in altri termini ancora, che assuma una certa consistenza).
      Più specificamente, si afferma che la “gravità della lesione” attiene al momento determinativo dell'evento dannoso, quale incidenza pregiudizievole sul diritto/interesse selezionato (dal legislatore o dall'interprete) come meritevole di tutela aquiliana, e la sua portata è destinata a riflettersi sull'ingiustizia del danno, che non potrà più predicarsi tale in presenza di una offensività solo minima della lesione stessa. La “serietà del danno” riguarda, invece, il piano delle conseguenze della lesione e cioè l'area dell'obbligazione risarcitoria, che si appunta sulla effettività della perdita subita (il c.d. danno-conseguenza); il pregiudizio “non serio” esclude che vi sia una perdita di utilità derivante da una lesione che pur abbia superato la soglia di offensività.
      L’accertamento della gravità della lesione e della serietà del danno spetta al giudice, in forza del “parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico”  : si tratta dunque di un criterio di valutazione del tutto analogo a quello che il giudice deve effettuare quando si tratta di individuare il livello di diligenza che si può esigere da un professionista nel caso in cui si debba decidere circa la sua eventuale negligenza nell’adempimento di una sua obbligazione professionale. Si tratta dunque di un accertamento di fatto ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l'indagine proiettarsi sugli aspetti contingenti dell'offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi. Tale accertamento di fatto, naturalmente, richiede la previa allegazione di parte degli elementi fattuali atti ad innescarlo, sui quali incentrare il thema probandum, alla cui definizione possono ben concorrere le presunzioni di cui all'art. 2727 c.c.
       La giurisprudenza della Corte di Cassazione, escludendo che, nel sistema della responsabilità civile, al risarcimento del danno possa ascriversi una funzione punitiva, afferma l'insussistenza di un “danno in re ipsa” e ciò non solo in riferimento alle ipotesi di lesione di diritti inviolabili , ma anche in quelle in cui il risarcimento del danno non patrimoniale sia previsto espressamente dalla legge . In realtà, seguendo questo ragionamento, la Cassazione confonde il corretto timore di non imputare a qualcuno la responsabilità di un danno a titolo di responsabilità oggettiva con la non risarcibilità del danno di lieve entità, che invece ben può essere imputato a qualcuno a titolo di colpa o addirittura dolo. Altrettanto non conferente appare il richiamo al timore di una funzione punitiva del risarcimento del danno, che presuppone un risarcimento superiore al danno provocato: non risarcire un danno lieve significa invece l’esatto contrario, ossia un risarcimento inferiore al danno provocato.
      La giustificazione della “soglia di risarcibilità” del danno non patrimoniale, dettata dall'esigenza di arginare la “proliferazione delle c.d. liti bagatellari”, si rinviene invece in maniera più convincente – a partire dalla citata sentenza a sezioni unite n. 26972 del 2008 – nel principio di solidarietà e tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità della lesione dell’interesse protetto ed il pregiudizio non sia futile (art. 2 Cost.).
     Il principio che configura una soglia nell'accesso alla tutela risarcitoria non rimane peraltro isolato nell'ambito dei confini nazionali, giacché non solo, de iure condendo, è campo di elaborazione di regole Europee in materia di tort law, ma trova espressione, direttamente positiva o frutto di interpretazione giurisprudenziale, in altri, ed a noi vicini, ordinamenti. Nondimeno, quello che icasticamente viene indicato come il principio de minimis non curat praetor, guida la Corte europea dei diritti dell'uomo nella delibazione di ricevibilità dei ricorsi, ai sensi dell'art. 35 della Convenzione, alla stregua del criterio del “pregiudizio significativo”, che porta a vetrificare, in concreto, se la violazione di un diritto abbia raggiunto “una soglia minima di gravità tale da giustificare l'esame da parte di una giurisdizione internazionale” .
      L’ultima sentenza significativa della Cassazione in tema è stata quella già citata delle sezioni unite n. 3727 del 2016, la quale ha affermato la non risarcibilità del danno non patrimoniale “di lieve entità” anche se provocato da un reato. In effetti, l’ordinanza di rimessione alle sezioni unite , rilevata la sussistenza di orientamenti giurisprudenziali civili e penali “non sempre armonici e collimanti” in tema di bene giuridico protetto dall’art. 684 c.p. (che punisce la condotta di colui che pubblica arbitrariamente atti processuali coperti da segreto investigativo), ha ritenuto che mentre prima della conclusione delle indagini preliminari tale bene giuridico andasse rinvenuto nella protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova o il buon andamento delle indagini , dopo tale momento (dall’avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p.p. fino all’apertura del dibattimento) la ratio della norma diventa quella di salvaguardare un principio cardine del processo accusatorio, ossia quello secondo il quale il giudice deve arrivare al dibattimento sgombro da pregiudizi, dovendo assistere davanti a sé alla formazione della prova nel contradditorio di accusa e difesa: si tratta in altre parole dell'esigenza di assicurare un corretto, equilibrato, indipendente e sereno giudizio del giudice del dibattimento. L’ordinanza di rimessione si interroga altresì sul se possa considerarsi integrato il reato di cui all’art. 684 c.p. ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto, per il fatto di riferirsi a fatti storici non particolarmente significativi se non addirittura pacifici per il pubblico dei lettori. Sulla base di queste considerazioni, e concentrandosi quasi esclusivamente dunque – al contrario di quanto hanno fatto le sezioni unite – su suddetti problemi di carattere marcatamente penalistico, hanno disposto la rimessione della causa alle sezioni unite, le quali hanno da un lato ritenuto che il reato di cui all’art. 684 c.p. abbia natura monoffensiva (ossia protegga solo interessi prettamente pubblicistici legati al buon funzionamento della giustizia, non anche la reputazione e la riservatezza del singolo) e che pertanto nessuna autonoma pretesa risarcitoria possa essere avanzata dalla parte coinvolta nel processo per il solo fatto che sia stata violata la norma incriminatrice in discorso; dall’altro lato hanno implicitamente risposto al quesito circa la possibilità di integrare il reato di cui all’art. 684 c.p. nel caso in cui il fatto sia lieve, ritenendo che la limitatezza della riproduzione si presta a essere apprezzata in chiave di inidoneità lesiva della condotta, alla stregua del criterio della necessaria offensività, ormai assurto a diritto vivente.
    Le sezioni unite n. 3727 del 2016 hanno però soprattutto ritenuto che, a prescindere dalla soluzione dei suddetti quesiti di carattere penalistico, qualsiasi danno non patrimoniale di lieve entità non è risarcibile (e quindi hanno implicitamente affermato che non è risarcibile quand’anche derivi da reato), valendosi dell’argomentazione secondo la quale non v'è diritto per il quale non operi la regola del bilanciamento con il principio di solidarietà, con la conseguenza che, perché si abbia una lesione ingiustificabile e risarcibile dello stesso, non basta la mera violazione delle disposizioni che lo riconoscono, ma è necessaria una violazione che ne offenda in modo sensibile la portata effettiva.
      In tema di risarcibilità del danno biologico, il combinato disposto dell’art. 139, comma 2, ultimo periodo, del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (codice delle assicurazioni private, come modificato dall’art. 32, comma 3-ter del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), e dell’art. 32, comma 3-quater, del citato d.l. n.1 del 2012, prevede una significativa limitazione risarcitoria a tale danno imponendo, per la prova di esso, la necessità di accertamenti obiettivi effettuati visivamente o strumentalmente. Tale assetto normativo è stato ritenuto costituzionalmente legittimo dalla Consulta , che ha dichiarato manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale.
      Infine, un ulteriore indizio di una tendenza anche legislativa a favore della non risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità lo si ricava dalla lettura nel loro complesso degli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, dalla quale emerge che, nella prospettiva del legislatore, il danno non patrimoniale deve essere risarcito in misura più che proporzionale al crescere della sua entità (si noti l’uso delle espressioni “più che proporzionale” e la possibilità di aumentare il danno non patrimoniale di non lieve entità del 30% e quello di lieve entità solo del 20%). Impostazione questa quindi coerente con il riconoscimento della non risarcibilità del danno non patrimoniale “futile”  .

      2. Principio di solidarietà e dovere di tolleranza.
     Secondo un inquadramento a cui la Cassazione e la Corte costituzionale rimangono fedeli dal 2003 , il danno non patrimoniale è risarcibile: a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato: in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale (cfr. art. 185 c.p.); b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale): in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del solo danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, i quali, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice.
      Secondo la Suprema Corte dunque, il danno non patrimoniale conseguente ad un reato è l’unico risarcibile in tutte le sue componenti (anche quindi, per ipotesi, in quella del danno esistenziale: in questo senso la citata Cass. a sezioni unite n. 26972 del 2008, che pure, affermando che tale danno non deriva dalla lesione dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost., ne ha ridimensionato notevolmente l’ambito di applicazione). Il danno da reato appariva e appare pertanto come quello più grave e quindi come il più “meritevole” di un pieno ristoro, anche per la circostanza di essere il più “antico” (in quanto è riconosciuto fin dal 1942, epoca in cui l’unica ipotesi di riconoscimento legislativo o giurisprudenziale del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale era l’art. 185 c.p.; gli altri invece solo a seguito di leggi speciali successive (degli anni novanta o degli anni duemila) o in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., avvenuta nel 2003 con le citate sentenze della Cassazione e della Consulta, ed erano pertanto sorti dubbi circa la possibilità di negare in tal caso il risarcimento del danno non patrimoniale di lieve entità, pur in presenza di un trend giurisprudenziale diretto, attraverso la massima valorizzazione del principio di solidarietà, a escludere il risarcimento nell’ipotesi di danno non patrimoniale la cui risarcibilità discende da una legge speciale o da una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.
     Rimaneva infatti non del tutto chiarito, in assenza di chiare affermazioni giurisprudenziali in un senso o nell’altro, se fosse risarcibile il danno non patrimoniale nell’ipotesi in cui da un lato fosse sì conseguenza di un reato ma dall’altro fosse di lieve entità, avesse cioè cagionato un pregiudizio alla vittima futile, non serio, futilità e non serietà da valutarsi secondo quanto ritenuto dalla coscienza sociale.
      La Cassazione a sezioni unite, con la sentenza sopra riportata, fonda la propria decisione, finalizzata a stabilire se sia risarcibile il danno non patrimoniale di lieve entità che sia conseguenza del reato di cui all’art. 684 c.p. (pubblicazione arbitraria di atti processuali coperti da segreto investigativo), sulla base di varie argomentazioni.
      La prima è che il reato consistente nel trasgredire il divieto di pubblicare atti coperti dal segreto investigativo di cui all’art. 684 c.p. è monoffensivo, e cioè è diretto a tutelare soltanto interessi pubblici legati al buon funzionamento della giustizia (ma questa affermazione non consente di escludere che il danno non patrimoniale non provenga da reato, perché quasi sempre a questa condotta corrisponde anche una lesione del bene reputazione/riservatezza del singolo, e il giudice civile dovrebbe quindi in ogni caso verificare se sia integrato in astratto anche il reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p.
      Una seconda argomentazione si fonda sul rilievo che la condotta, in ragione dell’entità della riproduzione, non si pone in contrasto con il principio di necessaria offensività (ma su questa affermazione rimangono non pochi dubbi perché il principio di offensività nel diritto penale ha avuto in Cassazione sino ad ora un’applicazione assai scarsa e per condotte di consistenza veramente irrisoria, tanto che la sentenza della Consulta citata dalla Cassazione  fa applicazione del principio di offensività non all’interno di una concreta fattispecie criminosa ma in astratto – così come è compito della Corte costituzionale – ossia per discernere se una fattispecie criminosa abbia ragion d’essere alla luce di tale principio (che trova il suo fondamento negli artt. 3 e 25 Cost.).
      Infine, e questa è l’ultima argomentazione, “al principio della necessità offensività fa da pendant, nell’ordinamento privatistico, quello della irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità” (per quanto detto al punto precedente circa la scarsa applicazione del principio di offensività, l’equazione “necessaria offensività” in penale uguale “non risarcibilità del danno non patrimoniale” in civile appare piuttosto forzata).
    Sfrondandola però dagli arditi, avventurosi e molto probabilmente inutili sconfinamenti nel diritto penale, è proprio quest’ultima l’affermazione che, per la circostanza di basarsi su un principio fondamentale quale è l’art. 2 Cost. e per non limitarsi a prendere in considerazione i danni provenienti dall’art. 684 c.p. ma tutti i danni provenienti in genere da reato, ha maggiore rilievo dal punto di vista civilistico, in quanto permette di estendere il principio della non risarcibilità del danno di lieve entità a tutti i danni non patrimoniali che siano conseguenza di un qualsiasi reato.
     Le sentenza della Cassazione n. 3727 del 2016 afferma infatti che, alla luce del principio costituzionale di solidarietà (che le sezioni unite accostano anche ad un dovere di tolleranza dell’agire altrui invasivo della propria sfera giuridica, e che – secondo quanto affermato dalla Cassazione  – costituisce il punto di mediazione che permette all'ordinamento di salvaguardare il diritto del singolo nell'ambito di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva), il danno non patrimoniale di lieve entità, che pure si ammette essere venuto ad esistenza, non possa però essere risarcito, in quanto non v'è diritto per cui non operi la regola del bilanciamento, in forza della quale, perché si abbia una lesione ingiustificabile e risarcibile dello stesso, non basta la mera violazione delle disposizioni che lo riconoscono, ma è necessaria una violazione che ne offenda in modo sensibile la portata effettiva.
     Si tratta di comprendere però se, alla luce della precedente giurisprudenza di legittimità e costituzionale, dei principi di ragionevolezza e di certezza del diritto di cui all’art. 3 Cost. e del significato effettivo che il principio di solidarietà assume nella nostra Costituzione, tale affermazione possa essere o meno condivisa.
     In campo contrattuale  espressione del principio di solidarietà è il principio del divieto di abuso del diritto , che, analogamente alla buona fede, impone di salvaguardare l’utilità altrui nei limiti di un non apprezzabile sacrificio. E’ evidente che avendo tale principio carattere generale, perché derivante dall’art. 2 Cost., non può non predicarsene l’applicabilità anche al campo della responsabilità extracontrattuale (come è avvenuto con la sentenza n. 3727 del 2016), il che imporrebbe però di verificare, proprio in parallelismo con la costruzione giuridica realizzata in campo contrattuale, se, nell’ipotesi sottoposta alle sezioni unite, pur in presenza di una lesione dell’altrui riservatezza e/o reputazione, il giornalista abbia ciò nonostante incrementato in maniera rilevante la possibilità per la collettività di informarsi su circostanze di particolare interesse, in maniera tale da giustificare il sacrificio del singolo. In questa prospettiva deve senz’altro condividersi la conclusione delle sezioni unite in virtù della circostanza, ben evidenziata nella motivazione, della irrisorietà del pregiudizio subito dalla persona offesa dalla condotta descritta dall’art. 684 c.p., integri o meno tale condotta – una volta effettuato un giudizio circa l’effettiva offensività della stessa – un reato. Inoltre, in ragione del principio del necessario bilanciamento tra valori aventi pari dignità costituzionale quando essi si pongano irrimediabilmente in conflitto fra di loro, sembrerebbe che, applicando questo concetto ai valori tutelati dall’art. 684 c.p., potrebbe sostenersi che quando vi sia una lieve lesione del diritto alla riservatezza, tale lesione possa essere accettata e tollerata in relazione al diritto alla libera manifestazione del pensiero. Infatti, il sacrificio del singolo non sarebbe fine a sé stesso, ma costituirebbe la conseguenza dell’esercizio di un diritto costituzionale di cui usufruiscono anche i destinatari della notizia (in quanto il diritto di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. ha anche un’importante espressione nel diritto della collettività ad essere informata . In realtà tuttavia la sentenza da ultimo citata non compie affatto una ponderazione di interessi tra il sacrificio del singolo e il beneficio di altri o della collettività, limitandosi ad affermare il dovere di tutti di tollerare il danno di lieve entità, a prescindere quindi sia dall’esistenza di un vantaggio di qualcuno causalmente riconducibile al pregiudizio subito dal danneggiato, sia dalla sussistenza di un atteggiamento addirittura doloso del danneggiante. Nessun parallelo sembra dunque potersi ragionevolmente effettuare tra l’applicazione del principio di solidarietà in campo contrattuale mediante gli istituti della buona fede e dell’abuso del diritto e l’applicazione dello stesso principio in campo extracontrattuale.
     In effetti, nel campo della responsabilità extracontrattuale, a partire dalla citata sentenza n. 26972 del 2008, secondo la Cassazione il danno non patrimoniale è risarcibile soltanto se la lesione dell’interesse protetto sia grave e se il danno conseguenza non sia futile. Tale principio è affermato in virtù da un lato dell’esistenza del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., che impone a tutti i consociati una certa tolleranza nei confronti dei danni non patrimoniali subiti dagli altri e dall’altro dalla constatazione dell’inesistenza di un principio della necessità di risarcire sempre e comunque il danno non patrimoniale .
     Da una lettura delle citate sentenze a sezioni unite n. 26972 del 2008 e n. 3727 del 2016, sembra emergere che, nell’ipotesi di reato e negli altri casi di danno non patrimoniale la cui risarcibilità è prevista espressamente dalla legge, mentre il requisito della gravità dell’interesse protetto è implicito nella previsione legislativa, occorre invece sempre comunque dimostrare la non futilità del danno subito (ossia che il danno non sia lieve), a prescindere dunque dal fatto che il danno derivi da reato o dalla lesione di un interesse costituzionalmente rilevante o che possa qualificarsi o meno come esistenziale.
      Coerentemente la Cassazione  aveva affermato che può ritenersi che il giudizio sulla gravità della lesione, ma non anche quello sulla serietà del danno, sia già definitivamente espresso dal legislatore nella stessa scelta di politica criminale di punire, per il particolare disvalore che lo caratterizza, un fatto come reato. Si pensi del resto all’esempio, offerto in motivazione dalla citata Cassazione a sezioni unite n. 26972 del 2008, quale danno non patrimoniale non risarcibile, di un “graffio superficiale dell’epidermide”. Tale danno non è considerato risarcibile, pur costituendo pacificamente sia lesione del diritto fondamentale alla salute di cui all’art. 32 Cost. sia conseguenza di un reato (se infatti il graffio non integrasse un reato in quanto conseguenza di una condotta né dolosa né colposa non si porrebbe proprio il problema dell’accertamento della futilità del danno, mancando a monte uno dei requisiti base dell’illecito civile, ossia l’elemento soggettivo). Sembra semmai che la sentenza voglia sottolineare da un lato che quando la lesione di un interesse costituzionalmente protetto sia lieve il relativo danno perda consistenza, ossia non venga più ritenuto meritevole di tutela dalla coscienza sociale e dall’altro che quanto maggiore sia la rilevanza dell’interesse leso tanto minore sarà la tolleranza che si deve avere in caso di sua lesione . 
      Nel caso oggetto dell’attenzione delle Sezioni unite n. 3727 del 2016 sembra che, a prescindere dalla configurabilità o meno del reato di cui all’art. 684 c.p., possa individuarsi un diritto costituzionale leso di particolare importanza (violazione della riservatezza e/o della reputazione). Il problema semmai che si pone quindi è quello di accertare, anche a voler ammettere – diversamente dalle conclusioni cui perviene la sentenza da ultimo citata - che il reato di cui all’art. 684 c.p. sia plurioffensivo in quanto posto a tutela sia dell’interesse al buon funzionamento della giustizia sia (più o meno indirettamente) a tutela della riservatezza e della reputazione, se questa offensività nei confronti dei valori reputazione/riservatezza superi una certa soglia di tollerabilità, ossia se il danno possa considerarsi lieve ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto, per il fatto di riferirsi a fatti storici non particolarmente significativi se non addirittura pacifici per il pubblico dei lettori.
      Si comprende allora quale diventa il problema creato da una soluzione pur in astratto più che condivisibile, problema per certi versi analogo a quello creato dall’istituto dell’abuso del diritto: il sacrificio della certezza del diritto (che pure è riconducibile al principio di ragionevolezza e quindi all’art. 3 Cost.  , in quanto è rimesso alla discrezionalità del giudice nell’interpretare la coscienza sociale lo stabilire quando un danno non patrimoniale sia di “lieve entità” (similmente a quanto avviene in campo contrattuale, ove il giudice deve decidere quando l’esercizio di un diritto determini uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte).
      Per venire incontro a queste esigenze di certezza, si ritiene che il legislatore potrebbe intervenire per fissare un limite pecuniario sotto il quale il danno non patrimoniale non possa essere risarcito, in tal modo consentendo anche al danneggiato di potersi meglio regolare circa le possibilità di ottenere un ristoro alla sua pretesa (che spesso, perlomeno in linea di massima, può già quantificarsi: si pensi in particolare alle tabelle di Milano, mediante le quali il danno biologico, ove si conoscano l’età del danneggiato e la percentuale di invalidità riconosciutagli, è già, a grandi linee, “patrimonializzato”), con conseguenti ricadute positive quindi anche in termini di riduzione delle cause sollevate inutilmente.
      In definitiva, il principio della non risarcibilità in ogni caso del danno non patrimoniale di lieve entità, trova un sicuro riferimento costituzionale nel principio di solidarietà e nella necessità di bilanciarlo con qualsiasi altro diritto, nonché con evidenti ragioni pratiche di impedire l’accesso alla giustizia a liti di scarso valore economico (che trovano un referente costituzionale nell’art. 111 Cost.); al contempo però questa impostazione si scontra inevitabilmente con il principio della certezza del diritto. In effetti, a voler essere coerenti con l’impostazione della sentenza da ultimo citata, una volta riconosciuto che il danno non patrimoniale in genere è risarcibile ed è pure suscettibile di essere liquidato in denaro, ed è quindi assimilabile in concerto ad un danno patrimoniale, si dovrebbe coerentemente pervenire alla conclusione che anche il danno patrimoniale di lieve entità non possa essere risarcito, a meno di non violare il principio di uguaglianza volendo considerare i danni non patrimoniali come danni “di serie B”, ossia “meno meritevoli di risarcimento” di quelli patrimoniali.

      3. Il danno non patrimoniale di lieve entità provocato intenzionalmente.
      Le perplessità di cui al paragrafo precedente diventano inquietanti interrogativi ove si consideri che la sentenza n. 3727 del 2016 della Cassazione non ha operato alcun distinguo per l’ipotesi in cui il danno non patrimoniale sia cagionato volontariamente. Riprendendo l’esempio di danno non patrimoniale non risarcibile fatto dalla sentenza n. 26972 del 2008, relativo al graffio superficiale all’epidermide, non sembra infatti ragionevole che tale danno, pure oggettivamente esiguo e pur se compiuto una tantum, debba essere tollerato nel caso in cui esso sia effettuato intenzionalmente (quindi soprattutto non se a titolo di dolo eventuale ma diretto o intenzionale). Del resto l’art. 833 c.c. in tema di divieto di atti d’emulazione vieta persino l’esercizio di un proprio diritto quando esso abbia il solo scopo di nuocere o recare molestia ad altri.
      Potrebbe però sostenersi che il principio di solidarietà debba essere più rettamente inteso non come obbligo nei confronti del danneggiante di tollerarne e sopportarne la maleducazione e l’invadenza, ma come dovere nei confronti dell’ordinamento giuridico, e quindi della collettività, di non proporre causa per una questione “bagatellare” che appesantirebbe il meccanismo della giustizia, visto che la collettività non può permettersi di sopportare il costo, economico e sociale, di un numero eccessivo di cause, anche alla luce dei principi costituzionali riguardanti la ragionevole durata del processo, dato che l’aumentare del numero delle cause farebbe inevitabilmente rallentare tutte le altre (oltretutto, nella maggior parte dei casi, aventi ad oggetto interessi ben più rilevanti). E’ infatti evidente, anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, che il costo per la collettività di una causa “bagatellare” può raggiungere – e nella realtà spesso non solo raggiunge ma supera di gran lunga – il valore della causa stessa e sarebbe pertanto irragionevole che l’ordinamento possa consentire liti simili. In quest’ottica dunque, il principio di solidarietà sposterebbe la prospettiva su un piano più propriamente pubblicistico, mettendo in gioco valori estranei al rapporto prettamente privatistico .
      Tuttavia, anche in questa prospettiva “pubblicistica” rimane pur sempre aperto il problema della mancata sanzione nei confronti del danneggiante, a meno di non volerlo giustificare per il solo fatto che, in concreto, comportamenti di ordinaria maleducazione sono ormai oggi in Italia all’ordine del giorno e sono purtroppo socialmente ampiamente non solo diffusi ma anche e soprattutto tollerati (si pensi al posteggio di una autovettura in doppia fila per un lasso significativo di tempo o a rumori molesti emessi in ore notturne). Il problema della mancata sanzione del danneggiante potrebbe risolversi rilevando come la concezione della responsabilità civile come avente natura sanzionatoria sia ormai superata: si pensi alla sentenza della Cassazione a sezioni unite  in materia di danno tanatologico, secondo cui in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio.
      Nella prospettiva originaria invece il cuore del sistema della responsabilità civile era legato a un profilo di natura soggettiva e psicologica, che ha riguardo all'agire dell'autore dell'illecito e vede nel risarcimento una forma di sanzione analoga a quella penale, con funzione deterrente (sistema sintetizzato dal principio affermato dalla dottrina tedesca “nessuna responsabilità senza colpa” e corrispondente alle codificazioni ottocentesche per giungere alle stesse impostazioni teoriche poste a base del codice del 1942).
      L’attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l'area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretta a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell'analisi economica del diritto) evidenzia coe risulti primaria l'esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno, inteso come “perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica soggettiva” .
      Occorre però sottolineare che nel caso del danno non patrimoniale di lieve entità tale danno (anche se appunto di lieve entità) si è realizzato effettivamente, e quindi, anche in una prospettiva non sanzionatoria ma riparatoria, non può non rilevarsi che così è il danneggiato – che non può chiedere il risarcimento del relativo danno – e non il danneggiante, a doversi fare carico del relativo danno, il che, nel caso in cui tale danno sia cagionato con dolo, appare francamente del tutto irragionevole. Inoltre, non può dimenticarsi che, nel caso del danno da morte il danneggiante verrà comunque sanzionato dal codice penale, e dovrà inoltre molto probabilmente risarcire i parenti della vittima per i danni patrimoniali e non patrimoniali da loro subiti; nel caso invece del danno non patrimoniale di lieve entità, in relazione all’entrata in vigore della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto introdotta dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, che ha inserito all’interno del codice penale l’art. 131-bis c.p. secondo cui la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, l'offesa è di particolare tenuità, il danneggiante “rischia” di non incorrere in nessuna sanzione, né penale né civile.
     Si ritiene dunque che, perlomeno per quanto riguarda quelli cagionati volontariamente, la Suprema Corte dovrebbe riflettere circa l’impossibilità di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali di lieve entità.

      4. Il danno biologico di lieve entità nel codice delle assicurazioni.
      Come accennato nel primo paragrafo, l’art. 32 del d.l. n. 1 del 2012, convertito in l. n, 27 del 2012, ha da una parte stabilito che il danno alla persona per lesioni di lieve entità – temporaneo o permanente – di cui all'articolo 139 del codice delle assicurazioni è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l'esistenza della lesione e dall’altra ha aggiunto il seguente periodo  al comma 2 dello stesso articolo 139: «In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente». Con riguardo a tali modifiche normative, l’ordinanza n. 242 del 2015 della Corte costituzionale ha affermato che già con la sentenza n. 235 del 2014 la Corte stessa aveva per un verso escluso che la “necessità” del riscontro strumentale sia riferibile al danno temporaneo e aveva, per altro verso, ritenuto non censurabile la prescrizione della  necessaria diagnostica strumentale ai fini della ricollegabilità di un danno “permanente” alle microlesioni di cui trattasi. Infatti, spiega la Consulta nell’ordinanza citata, in relazione a tale seconda tipologia di danno la limitazione imposta al correlativo accertamento (che sarebbe altrimenti sottoposto ad una discrezionalità eccessiva, con rischio di estensione a postumi invalidanti inesistenti o enfatizzati) è stata già ritenuta rispondente a criteri di ragionevolezza, in termini di bilanciamento, nel nostro sistema di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurati, in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l’interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi. Pertanto, il nuovo art. 139 del codice delle assicurazioni afferma ora il principio secondo cui la risarcibilità del danno biologico permanente è subordinata all’imprescindibile sussistenza di un accertamento clinico strumentale obiettivo, dunque ad una specifica prov di tipo documentale, non bastando i soli accertamenti clinico-obiettivi .
      L’ordinanza n. 242 del 2015 presta però il fianco a facili critiche, dal momento che questa forte limitazione probatoria impedisce in molti casi alla parte lesa di dimostrare il danno subito, finendo inevitabilmente per incidere sulla tutela del bene giuridico salute di cui all’art. 32 Cost., tutelato come fondamentale e inviolabile da innumerevoli pronunce della Consulta .
      Sembra che pure in questo caso, come anche si è descritto nei paragrafi 2 e 3 a proposito della giurisprudenza della Cassazione in tema di serietà del danno, il principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. venga “scomodato” non del tutto a proposito: in quel caso per costringere il danneggiato ad un dovere di solidarietà nei confronti del danneggiante quand’anche quest’ultimo abbia agito contro di lui intenzionalmente; in questo caso per imporre al danneggiato un dovere di solidarietà nei confronti dell’insieme generico delle compagnie assicurative e degli assicurati. In entrambi i casi l’elemento casualità/fatalità/destino sembra farla da padrone, nel senso che è il danneggiato a dover sopportare senza sua colpa il danno quand’anche non abbia responsabilità per il verificarsi del danno stesso e quest’ultimo sia oggetto di assicurazione.
      Altro elemento che lascia non poco perplessi – soprattutto in un ragionamento svolto da una Corte costituzionale, per definizione garante dei diritti supremi degli essere umani – è la considerazione secondo cui se i danni non fossero suscettibili di essere provati solo mediante accertamenti strumentali essi sarebbero sottoposti ad una “discrezionalità eccessiva, con rischio di estensione a postumi invalidanti inesistenti o enfatizzati”: si afferma infatti di fatto che, per impedire il comportamento – peraltro penalmente rilevante – di alcuni danneggiati o di medici compiacenti diretto ad ingigantire maliziosamente le conseguenze del danno, si debba penalizzare l’intera platea dei danneggiati, impedendogli o rende dogli assai più complicato l’accesso all’azione, in palese violazione non solo dell’art. 32 Cost. cit., ma anche degli artt. 24 e 111 Cost. nonché 6 CEDU, secondo i quali tutti possono agire in giudizio per la difesa dei propri diritti mediante un giusto processo.
      La citata sentenza della Consulta n. 235 del 2014 si era peraltro posta il problema della portata delle modifiche normative introdotte con il d.l. n. 1 del 2012, ma aveva affermato che dette disposizioni non sono attinenti alla consistenza del diritto al risarcimento del danno biologico, in quanto esse incidono “solo” a livello procedurale-processuale, cioè sull’accertamento in concreto dei pregiudizi: come se diritto ad un risarcimento e limitazioni alla sua prova costituissero due distinte realtà.
     Non può dunque non considerarsi come le modifiche introdotte con il d.l. n. 1 del 2012 introducano un ulteriore e forte segnale di “diffidenza” per il danno non patrimoniale, per la cui rilevanza giuridica si richiede che la sua “serietà” sia documentata da accertamenti strumentali.
     Si è poi detto nel primo paragrafo che un ulteriore indizio di un favor legislativo per la non risarcibilità del danno non patrimoniale “non serio” lo si ricava dalla lettura degli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, dalla quale emerge che il danno non patrimoniale deve essere risarcito in misura più che proporzionale al crescere della sua entità.
      Deve altresì evidenziarsi che la citata sentenza n. 235 del 2014 della Corte costituzionale ha anche ridimensionato (per non dire azzerato) la componente “danno morale” del danno non patrimoniale, affermando che è pur vero che l’art. 139 del codice delle assicurazioni fa testualmente riferimento al “danno biologico” e non fa menzione anche del “danno morale”, ma che, con la sentenza n. 26972 del 2008, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito come «il danno morale» − e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale − «rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente». La norma denunciata non è, quindi, chiusa - prosegue nel suo ragionamento la Consulta - alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo infatti in concreto i relativi presupposti, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell’ammontare del danno biologico secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla disposizione del comma 3 dell’art. 139 del codice delle assicurazioni (ossia l’aumento del risarcimento fino ad un quinto).
      Tale ricostruzione contraddice però la definizione che lo stesso art. 139, al comma 2, offre di danno biologico: «agli effetti di cui al comma 1 per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito». Infatti, la norma comprende nella nozione di danno biologico le lesioni all’integrità psichica suscettibili di accertamento medico legale: ma il danno morale consiste nel dolore, nelle sofferenze, nei dispiaceri, nei patemi d’animo: non si tratta dunque di “lesioni”, non si tratta di una lesione “psichica” di un soggetto, e soprattutto si tratta di danni non suscettibili di accertamento medico-legale, con la conseguenza che, contrariamente alle affermazioni della Consulta, nessun aumento del danno biologico può essere ottenuto per la circostanza “di aver sofferto più della media” certificata da un medico.
      La sentenza della Consulta da ultimo citata ritiene che anche in relazione all’ulteriore profilo del «limite» all’integrale risarcimento del danno alla persona – costituito dalla possibilità di aumentare il risarcimento rispetto alle tabelle solo fino ad un quinto − la questione, in relazione ai medesimi parametri di cui sopra, non è fondata. La Corte costituzionale rileva infatti come anche in passato aveva chiarito come non si configuri un’ipotesi di illegittimità costituzionale per lesione del diritto inviolabile all’integrità della persona ove la disciplina in contestazione sia volta a comporre le esigenze del danneggiato con altro valore di rilievo costituzionale ; a sua volta, la Corte di cassazione, con la già ricordata sentenza n. 26972 del 2008, ha puntualizzato come il bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona ed il dovere di solidarietà comporti – come già ricordato - che non sia risarcibile il danno per lesione di quei diritti che non superi il «livello di tollerabilità» che «ogni persona inserita nel complesso contesto sociale deve accettare in virtù del dovere di tolleranza che la convivenza impone». Al bilanciamento – afferma la Consulta – non si sottraggono neppure i diritti della persona: orbene, in un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata – in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l’interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi – la disciplina in esame, che si propone il contemperamento di tali contrapposti interessi, supera certamente il vaglio di ragionevolezza, in quanto l’introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno − attinente al solo settore delle lesioni di lieve entità – lascia comunque, spazio al giudice per personalizzare l’importo risarcitorio, risultante dalla applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente maggiorandolo fino ad un quinto, in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato.
      Tuttavia la Corte costituzionale non tiene conto che la possibilità per il giudice di aumentare solo di un quinto l’importo di base – già modesto – stabilito dalle tabelle per personalizzare il danno biologico è eccessivamente riduttiva, sia perché, come detto in precedenza, per tale aumento non si può tener conto del danno morale, sia soprattutto perché si trascura che il principio secondo cui occorre trattare in maniera adeguatamente diseguale situazioni diseguali , corollario del generalissimo principio di uguaglianza, non tollera limitazioni di sorta, e sono invece ben immaginabili danni non patrimoniali di lieve entità che diano luogo a conseguenze dannose ben superiori rispetto a quanto stabilito a priori dalle tabelle, pur aumentate di un quinto nei loro valori.
     E’ questo un ulteriore esempio di come, con la “scusa” della necessità di un’indagine circa la “serietà” del danno non patrimoniale, a seconda dei casi o sotto il profilo della non futilità o sotto il profilo di una consistenza minima del danno stesso, si nasconda in realtà una vera e propria arbitraria limitazione del relativo risarcimento. L’arbitrio consiste nella violazione di generalissimi principi, quali, a seconda dei casi, quelli di ragionevolezza, uguaglianza, certezza del diritto, giusto processo, diritto alla salute, adducendo una presunta necessità di adeguarsi ad un principio di solidarietà da intendersi come dovere del danneggiato di sopportare il danno senza poter chiedere il relativo risarcimento, o senza poterlo chiedere nella sua effettiva entità. Dietro queste limitazioni si nascondono in realtà esigenze senz’altro importanti ma dettate da ideali meno nobili rispetto al principio di solidarietà, quali quella di ridurre o il numero delle liti o i premi assicurativi.


 

 
 
 
 
 
 

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