Sommario: 1. Premessa e definizione. - 2. Criteri di priorità e i principi costituzionali. - 3. Criteri di priorità e il diritto positivo. - 4. Criteri di priorità nella normativa secondaria del Csm. - 5. Criteri di priorità e avocazione delle indagini. - 6. Criteri di priorità: conseguenze disciplinari. - 7. Priorità e prospettive di riforma.
1. Premessa e definizione.
I criteri di priorità rappresentano un esempio concreto di problem solving giudiziario. Infatti, essi sono stati originariamente ideati e attuati dagli uffici giudiziari quale soluzione concreta all’annoso contrasto tra la mole degli affari penali, da un lato, e le risorse disponibili, intese in termini di capitale umano giudiziario e amministrativo, dall’altro: contrasto che rischiava di lasciare senza una risposta di giustizia fatti criminosi dotati di particolare offensività e caratterizzati da elevata rilevanza sociale, se si fosse seguito pedissequamente il criterio di ordine temporale nella trattazione degli affari penali.
Originati dalla prassi[1], col tempo, sono assurti a tutti gli effetti al rango di istituto giuridico, essendo stati recepiti anche nella normativa primaria e in quella secondaria del Csm, e avendo originato dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, in particolare, sul potere dei capi degli uffici giudiziari di adottare direttive in merito all’ordine di trattazione dei fascicoli penali.
La definizione dei criteri di priorità non può che ricondurre alla loro natura di strumento organizzativo interno degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti, quali parametri orientativi nella gestione della tempistica degli affari. Mentre per i criteri applicabili agli uffici giudicanti, però, si è potuto assistere a una sussunzione della prassi in norme primarie, nessuna disciplina legislativa è stata dettata per i criteri di priorità adottabili dagli uffici requirenti, né si è previsto con norma ad hoc il correlativo potere diretto in capo al Procuratore della Repubblica, che si deduce solo indirettamente, per la necessità di un imprescindibile coordinamento tra le attività di indagine e le tipologie di affari penali da trattare in dibattimento.
In ogni caso, l’eterogeneità dei provvedimenti adottati negli uffici giudiziari requirenti sparsi nel territorio nazionale, pur con finalità precipuamente organizzativa, ha spinto il Csm, con apposite risoluzioni e in occasione del vaglio di singoli provvedimenti organizzativi, a intervenire più volte, in quanto, l’obbligo costituzionale di perseguire ogni fatto penalmente rilevante, esclude che, nel definire criteri di priorità, sia consentito omettere in assoluto la trattazione di fatti qualificati dalla legge come reati.
2. Criteri di priorità e i principi costituzionali.
Il dibattito formatosi sui criteri di priorità è stato alimentato dall’evidente impatto che essi possono avere su fondamentali principi costituzionali, sia afferenti l’attività giudiziaria in senso stretto, come il principio della indipendenza della magistratura, del giusto processo e della obbligatorietà dell’azione penale, di cui, rispettivamente, agli articoli 104, 111 e 112 Cost., sia, più in generale, pubblicistici, come il principio di imparzialità e il principio di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost..
In ordine alla prima categoria di principi, infatti, il nostro ordinamento, diversamente da altri sistemi costituzionali europei, fondati sul principio di discrezionalità o facoltatività dell’azione penale, è governato dal principio di obbligatorietà della stessa, sancito dall’art. 112 della Cost.[2] Detta disposizione è posta a presidio della indipendenza e dell’autonomia dell’intera magistratura, ivi compresi i pubblici ministeri nell’esercizio delle loro funzioni inquirenti e requirenti[3], e a garanzia della uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Il principio di cui all’art. 112 Cost. vieta, pertanto, all’organo inquirente di operare soggettive selezioni nell’ambito dei procedimenti penali pendenti, che si risolverebbero in un’attività arbitraria in contrasto col nostro sistema costituzionale.
Tuttavia, le difficoltà operative contro le quali si scontrano le Procure nel dare concreta attuazione al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e, di conseguenza, anche al principio dell’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge, sono alla base della scelta di fare ricorso a moduli gestionali degli affari penali che, per predeterminate categorie di reati di minor allarme sociale, e senza mai consentire l’omessa trattazione delle indagini preliminari e delle determinazioni finali, ammettono una posticipazione dell’istruttoria, a favore di fatti criminosi dotati di particolare gravità e peculiare offensività.
Infine, occorre ricordare che i criteri di precedenza nella trattazione degli affari vanno contemperati con il principio della ragionevole durata dei processi (art. 6 Cedu e art. 111 Cost.), onde garantire un tempestivo accesso alla giustizia ed evitare i rischi di infrazione della legge Pinto (l. 24 marzo 2001 n. 89).
Da questo punto di vista, i criteri di priorità sono valutati in termini positivi e ritenuti compatibili con i principi costituzionali dalla dottrina maggioritaria, che, anzi, ne evidenzia il carattere di strumento necessario per assicurarne la loro effettività, attesa la loro valenza di misura di razionalizzazione del sistema.
Rispetto, poi, ai principi di imparzialità e buon andamento, partendo dal presupposto che essi si estendono anche all’amministrazione della giustizia, e che il buon andamento è sempre declinato in termini di efficienza, efficacia ed economicità, non sarebbe corretto concludere che il loro perseguimento si tradurrebbe in una elusione dei principi costituzionali di matrice penalistica, quale, in primis, quello di obbligatorietà dell’azione penale.
Infatti, l’elaborazione di criteri orientativi interni all’ufficio requirente e ad esso applicabili nel suo complesso, limita la disomogeneità, nell’ambito del medesimo ufficio, delle scelte discrezionali deflattive dei propri carichi di lavoro adottate dai singoli sostituti, la cui attività deve essere, invece, razionale, trasparente ex post e prevedibile ex ante, ed evita scelte basate su valutazioni individuali di opportunità più che sulla loro doverosità.
Si può asserire, in conclusione, che i criteri di priorità assicurano un giusto bilanciamento tra interessi tutti di rango primario tutelati dai principi costituzionali, che talvolta possono, in concreto, rivelarsi contrapposti. Infine, essi possono considerarsi linee guida che si traducono sul piano pratico-applicativo in una attuazione “realistica” del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
L’orientamento dottrinario contrario ai criteri di priorità ritiene che gli stessi siano compatibili soltanto con un sistema costituzionale fondato sulla facoltatività della azione penale ed evidenzia come tali scelte si traducano in concreto in scelte di politica criminale, che dovrebbero essere assunte non già da un corpo burocratico assunto per concorso, ovvero dalla magistratura, ma dal legislatore, che gode della legittimazione democratica[4]. Inoltre, secondo detta impostazione critica, i criteri di priorità, pur essendo idonei a limitare la disomogeneità operativa interna ad un medesimo ufficio requirente, tuttavia non impediscono, anzi sovente si traducono in disomogeneità nelle scelte delle diverse realtà giudiziarie circondariali[5].
3. Criteri di priorità e il diritto positivo.
Le previsioni normative dei criteri di priorità sono fissate solo per gli uffici giudicanti.
La prima previsione si ritrova nell’art. 227 del d.leg. 19 febbraio 1998 n. 51, istitutivo del giudice unico di primo grado. La norma consentiva, in via transitoria, per garantire la rapida definizione dei processi pendenti alla data di efficacia del decreto legislativo, che, nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, anche indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella della iscrizione del procedimento, si sarebbe dovuto tener conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che sarebbe potuto derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa. Il 2° comma del citato articolo prevedeva, inoltre, la comunicazione tempestiva al Csm dei criteri di priorità adottati.
Una seconda disposizione di carattere generale è stata successivamente inserita nel codice di procedura penale, tra le disposizioni di attuazione, dall’art. 15, d.l. 24 novembre 2000 n. 341, convertito in l. 19 gennaio 2001 n. 4, e poi successivamente modificata dall’art. 2 bis d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito in l. 24 luglio 2008 n. 125. Si tratta dell’art. 132 bis, disp. att. c.p.p., che disciplina la formazione dei ruoli di udienza e la trattazione dei processi. Il testo originario prevedeva che nella formazione dei ruoli di udienza è assicurata priorità assoluta alla trattazione dei procedimenti per i quali ricorrono ragioni di urgenza con riferimento alla scadenza dei termini di custodia cautelare. Con le successive modifiche lo stretto ambito della scadenza dei termini della custodia cautelare è stato superato e il legislatore definisce ora una scala di priorità dei procedimenti da trattare in ragione della gravità e dell’allarme sociale dei reati contestati, stabilendo sul piano operativo che i dirigenti degli uffici giudicanti adottano i provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la rapida definizione dei processi per i quali è prevista la trattazione prioritaria.
Non sono mancati tentativi per introdurre un sistema di priorità anche nell’esercizio dell’azione penale. In senso favorevole alla sua introduzione si era pronunciata anche la commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario nominata nel 1993 dal ministro Conso, purché l’intervento avesse riguardato scelte di carattere generale e non singoli reati, in linea con le conclusioni del dibattito formatosi sulla compatibilità dei criteri di priorità con il principio di uniforme esercizio dell’azione penale di cui all’art. 1, comma 2, del decreto 106/2006, inteso come esercizio paritario per classi o tipologie di reati predeterminati in linea generale.
I diversi progetti legislativi non sono però mai stati approvati dal Parlamento, e il legislatore ha cercato di fronteggiare i problemi derivanti dalla previsione dell’obbligo dell’azione penale facendo ricorso ad altre soluzioni: interventi diretti a ridurre l’area dei fatti penalmente rilevanti, misure eccezionali di tipo deflattivo, quali l’amnistia e l’indulto.
Sebbene, dunque, non vi sia alcuna previsione legislativa espressa, da molti anni, i procuratori, per limitare al massimo le inevitabili disfunzioni, provvedono alla fissazione di criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale. Essi sono contenuti in atti formali vincolanti per i singoli sostituti, e si sostanziano talvolta in parametri ormai di fonte normativa, talvolta in parametri ultralegali, individuati dalla prassi. Così, tra i tanti criteri, quelli più diffusi: le misure cautelari in corso di esecuzione, il potenziale pregiudizio per la formazione della prova, la prescrizione ravvicinata nel tempo, la soggettività del reo, la delinquenza qualificata, il privilegiare la richiesta di archiviazione quando essa sia praticabile, la rilevanza dell’interesse anche civilistico della persona offesa, con prevalenza agli interessi di rilievo costituzionale e agli interessi collettivi, la concreta offensività e la gravità/tenuità del reato.
Con riferimento all’ultimo criterio al quale spesso si è fatto ricorso, deve sottolinearsi come questo trovi oggi un preciso aggancio normativo, atteso che il legislatore ha introdotto nell’ordinamento anche per i reati commessi da maggiori d’età l’istituto della particolare tenuità del fatto col d.leg. 16 marzo 2015, n.
Da ultimo si segnala che, nell’ambito della più recente riforma del processo penale, approvata in via definitiva il 14.6.2017 (DDL n.4368 in attesa di promulgazione), verrà introdotto, sempre per gli uffici giudicanti, in relazione alla predisposizione dei ruoli dibattimentali, la lettera f) bis all’art.132 bis disp. att. al c.p.p., che attribuisce carattere di priorità ai processi che trattino i reati contro
4. Criteri di priorità nella normativa secondaria del Csm.
Per quanto risultati analoghi a quelli della fissazione di criteri di priorità si conseguano anche attraverso misure organizzative più tradizionali, come l’istituzione di gruppi di lavoro per determinate materie, la distribuzione degli affari secondo criteri di specializzazione professionale, il ricorso a forme di coordinamento delle indagini della più varia natura, le direttive alla polizia giudiziaria, il Csm ha invitato i dirigenti degli uffici di procura ad adottare criteri di priorità, senza suscitare critiche o commenti di disapprovazione né da parte della magistratura, né della dottrina[7].
Infatti, il Csm ha più volte[8] affermato la legittimità della prassi dei criteri di priorità nelle procure, riconoscendoli come moduli organizzativi virtuosi, anche se ha precisato che il suo intervento deve considerarsi limitato alla sfera organizzativa dell’attività giudiziaria, e non autorizzatorio – di fatto o di diritto – della mancata trattazione di taluni procedimenti.
L’organo di autogoverno della magistratura, in realtà, espresse, in nuce, il suo favorevole orientamento rispetto ai parametri di priorità, già nel 1977, anche in assenza di alcuna iniziativa organizzativa dei dirigenti degli uffici giudiziari, e anche in assenza di alcuna previsione normativa. Infatti, nel Notiziario Csm del 31 luglio 1977 si auspicò una programmazione nello “svolgimento del lavoro penale in modo da consentire in primo luogo la trattazione dei processi più gravi”.
Dall’esame dei pronunciamenti consiliari emergono diversi comportamenti organizzativi ai quali i capi delle procure devono attenersi, a partire dalla doverosità di adottare parametri orientativi della tempistica di definizione dei procedimenti penali, in un’ottica di buona amministrazione e di uniformità di esercizio dell’azione penale, e di comunicazione dei criteri di priorità adottati all’organo di autogoverno, alla stregua di quelli di organizzazione e di assegnazione degli affari.
Nella fase del regime transitorio di cui al menzionato art. 227, d.leg. 51/98, e sino alla completa definizione dei procedimenti contemplati dalla stessa norma (ovvero fino al 2011), il Csm ebbe a chiarire che la determinazione dei criteri di priorità non doveva interferire con i criteri predeterminati dell’assegnazione degli affari, e non poteva, quindi, tradursi in un’autorizzazione ad accantonare i procedimenti meno rilevanti in attesa della loro prescrizione. Stabilì, inoltre, che, per dare concreta attuazione ai criteri prioritari, in ogni distretto si organizzasse una conferenza dei capi degli uffici giudicanti e requirenti, preceduta da riunioni aperte ai magistrati assegnati a ciascuno di essi e convocata dal presidente della corte d’appello, con il compito di individuare soluzioni organizzative finalizzate alla più sollecita definizione dei procedimenti e dei processi pendenti, per armonizzare tra loro i più idonei moduli organizzativi elaborati per la corretta attuazione dell’art. 227 nel contesto di ciascuna realtà territoriale.
La procedura di adozione dei criteri di priorità per il tramite della conferenza distrettuale è stata rivitalizzata dalla delibera 9 luglio 2014, che prevede l’estensione della partecipazione anche ai dirigenti amministrativi e ai presidenti degli ordini forensi territoriali.
Già dalla delibera 13 novembre 2008 emergeva come i lavori della conferenza devono portare a un concerto tra il Presidente del Tribunale e il Procuratore della Repubblica, non risultando, quindi, sufficiente e regolare, la semplice audizione del capo della procura.
La circolare esaustiva e riassuntiva del 9 luglio 2014 si indirizza agli uffici giudicanti, mentre, per gli uffici di procura, in assenza di una tipizzazione legislativa delle priorità da osservare nell’esercizio dell’azione penale, stabilisce che le scelte sono rimesse ai dirigenti degli uffici requirenti, che dovranno, tuttavia, tener conto dei criteri adottati dai corrispondenti uffici giudicanti.
La stessa delibera del 9 luglio 2014, rispetto ai parametri legali e ultralegali, conferma quanto già affermato nella precedente delibera del 13 novembre
Con la delibera dell’11 maggio 2016, l’organo di autogoverno ha adottato le linee guida da seguire in materia di criteri di priorità nella fissazione delle udienze per i reati a citazione diretta, contro la prassi dei tribunali di non evadere, con aggravamento del rischio di prescrizione, le richieste di fissazione di udienza avanzate dagli uffici di procura nei citati reati di cui all’art.550 c.p.p, con conseguente impatto negativo sulle pendenze dell’ufficio requirente e sulla laboriosità dei pubblici ministeri, in quanto, nonostante i procedimenti siano di fatto definiti a livello di indagini preliminari, risultano formalmente pendenti finchè non sia fissata l’udienza dibattimentale. Il Csm, nel sottolineare che la fissazione dell’udienza è un atto dovuto che non può restare inevaso per un lungo arco temporale, precisa che altrettanto doverosa è la selezione delle priorità da parte degli uffici requirenti e la valutazione delle concrete conseguenze processuali, non potendosi riversare sui tribunali gli affari penali in modo indistinto, pena la vanificazione dell’esercizio dell’azione penale.
Infine, le recenti delibere 17 giugno 2015 e 7 luglio 2016 inseriscono i criteri di priorità tra le buone prassi organizzative[9].
5. Criteri di priorità e avocazione delle indagini.
L’istituto della avocazione sub specie di inerzia del pm, prevista dall’art. 412 c.p.p., viene in rilievo in relazione al tema dei criteri di priorità, al quale appare strettamente collegato[10].
Risulta evidente, infatti, che la efficacia di detti criteri dipende dall’esercizio selettivo del potere di avocazione orientato tendenzialmente sui casi di inerzia nelle indagini relativi ai reati contemplati come prioritari.
Il problema è, però, costituito dal fatto che l’istituto dell’avocazione delle indagini, nella sola ipotesi contemplata dal citato art. 412 c.p.p., è da sempre ritenuto in dottrina come obbligatorio e non già facoltativo, essendo posto dall’ordinamento a presidio dell’obbligo costituzionale di esercizio dell’azione penale, e rappresentando, dunque, una garanzia contro l’inerzia e la stasi procedurale causate da omissioni, ritardi e inefficienze degli uffici requirenti, senza alcuna distinzione tra tipologie di reato prioritarie o meno.
Tuttavia, pur muovendo dalla natura obbligatoria dell’istituto, il ricorso sistematico e indiscriminato al potere di avocazione secondo un criterio automatico fondato sul mero dato cronologico di scadenza del termine delle indagini preliminari, rischia di avere l’effetto di frustrare gli obiettivi di efficienza che si intendono perseguire attraverso i modelli organizzativi fondati su tipologie di reato a trattazione anticipata o prioritaria.
Nella prassi, infatti, la avocazione non ha avuto un diffuso e sistematico riscontro, considerata la ricorrente impossibilità, per le procure generali, di far fronte alla copiosa mole di procedimenti penali delle procure di primo grado, che, se avocati senza un criterio fondato sulla ragionevolezza, ne frustrerebbe la natura di strumento di garanzia e funzionalità del sistema.
Proprio per detta ragione, il Csm, con la già citata delibera dell’11 maggio
Su questa premessa il Csm ha invitato, in linea con l’orientamento già espresso con delibera del 12 settembre 2007, le Procure Generali presso le Corti d’Appello a ricorrere in modo selettivo all’istituto della avocazione, tanto che ha demandato alle stesse il compito di individuare criteri predeterminati per il corretto esercizio del relativo potere.
In sostanza, l’autogoverno ha operato una precisa opzione, che costituisce un punto di equilibrio tra obbligatorietà della avocazione e principio costituzionale del buon andamento della amministrazione giudiziaria, individuando come criterio direttivo, anche se non avente carattere cogente in termini assoluti, il principio per cui, ai fini della avocazione, si dovrà preventivamente verificare se l’inerzia sia conseguente all’applicazione di disposizioni organizzative interne contenenti criteri di priorità e frutto di protocolli adottati con gli uffici giudicanti “dirimpettai”.
Sarebbe, infatti, irragionevole un’avocazione disposta per la temporanea inerzia derivata dal rispetto delle scelte organizzative di un Procuratore, in quanto se ne vanificherebbe il progetto organizzativo, peraltro espressione di concerto con il Presidente del Tribunale, con conseguente vanificazione della funzionalità del sistema.
Nulla quaestio, al contrario, in ordine all’esercizio del potere di avocazione per quei procedimenti che rientrino tra quelli contemplati come prioritari e in relazione ai quali fossero scaduti i termini di indagine senza il compimento o il completamento della attività istruttoria.
Da ultimo si deve sottolineare come il tema dei rapporti tra avocazione e criteri di priorità sia destinato a rinfocolarsi a motivo della modifica del primo comma dell’art. 412 c.p.p. nell’ambito della riforma del processo penale del giugno 2017, atteso che il legislatore ha previsto che il Procuratore Generale dispone la avocazione quando siano decorsi tre mesi (o dodici per le fattispecie più gravi) dalla scadenza del termine massimo o prorogato delle indagini preliminari, senza operare alcun distinguo tra fattispecie prioritarie e postergate.
A ben vedere, pur senza accedere necessariamente alla tesi della natura facoltativa della avocazione al fine di renderla compatibile col sistema, non pare che il nuovo art. 412 c.p.p., come modificato, renda impraticabile la soluzione sopra indicata dal Csm di sollecitare le procure di secondo grado ad un ricorso selettivo della avocazione, anche se nel rispetto dei nuovi termini previsti, specie in presenza di modelli organizzativi orientati dai criteri di priorità.
Con la nuova Circolare sull’organizzazione degli uffici di Procura (delibera n. 664/VV/2011 del 16 novembre 2017) si stabilisce che (art. 18, comma 1) : “Il Procuratore generale presso
Detta disposizione mira positivamente a definire e a razionalizzare, anche e proprio alla luce della recente riforma, le modalità di esercizio del potere di avocazione del Procuratore Generale alla stregua dei criteri di priorità eventualmente fissati dal Procuratore della Repubblica nel progetto organizzativo, così ulteriormente valorizzando la rilevanza di questi ultimi, che finiscono con l’orientare in subiecta materia l’esercizio stesso del citato potere.
Ai medesimi fini è ispirato, inoltre, il disposto del successivo art. 21, comma 2, della citata circolare, che prevede che, nella trasmissione al Procuratore Generale presso la corte di Appello, a norma dell’art. 127 disp. att. c.p.p., dell’elenco delle notizie di reato contro persone note per le quali non sia stata esercitata l’azione penale o richiesta l’archiviazione entro il termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice, “andranno distinti i procedimenti scaduti con indagini effettuate e quelli senza indagini o con ulteriori indagini da compiere, nonché quelli a trattazione prioritaria che non è stato possibile concludere”.
6. Criteri di priorità: conseguenze disciplinari.
La scelta organizzativa del Procuratore della Repubblica di adottare criteri di priorità può produrre conseguenze per i pubblici ministeri addetti all’ufficio sia di natura disciplinare che sotto il profilo della periodica valutazione della loro professionalità[11]. Sovente, infatti, il Csm ha dovuto affrontare il tema della valenza scriminante o giustificativa della vigenza, in un ufficio giudiziario, di modelli organizzativi fondati sui criteri di priorità, rispetto alle inadempienze funzionali o, in particolare, alla tardiva definizione di un procedimento penale assegnato.
In senso favorevole alle scelte selettive del singolo pm, fondate sul presupposto della oggettiva impossibilità di far fronte al soverchio carico di lavoro, una prima sentenza della sez. disciplinare del Csm, risalente al 1997, dichiara non configurabile l’illecito disciplinare contestato in capo al magistrato, perché non addebitabile a suo comportamento negligente l’aver lasciato formare, per sua scelta, un arretrato conseguente alla trattazione dei fatti di maggiore gravità e/o allarme sociale e l’aver curato la presenza in dibattimento, in assenza di indicazioni di priorità da parte del Procuratore, e nell’impossibilità materiale di esaurire con scrupolo tutti i procedimenti assegnatigli. Mentre
Con altra sentenza dell’anno 2012 l’organo di autogoverno dei magistrati ha ritenuto che non costituisce illecito disciplinare la condotta del sostituto assegnatario di un ruolo particolarmente gravoso che, pur omettendo lo svolgimento di qualsivoglia attività di indagine in ordine ad un determinato reato sino alla sua prescrizione, abbia commesso tale omissione per la puntuale applicazione dei criteri indicati dalla legge per l’individuazione dei procedimenti cui dare la priorità nella trattazione.
Per converso, la sez. disciplinare del Csm ha, in diverse occasioni, escluso che, in assenza di criteri di priorità dettati dal capo dell’ufficio, possa ritenersi giustificata la selezione soggettiva dei procedimenti da trattare a scapito di altri operata dal singolo pm. Il giudice disciplinare, infatti, ha ritenuto sussistente l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, per reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni (art. 2, lett. q) del d.leg. 109/06), nella condotta del pm, il quale ometta di definire con una richiesta di archiviazione un numero elevato di procedimenti penali, assegnando priorità ad altri procedimenti in deroga al criterio cronologico, senza che nessuna norma di legge o disposizione organizzativa gli conferisca tale potere, trattandosi di una scelta della trattazione degli affari non improntata a criteri oggettivi e predeterminati.
Detto principio era stato già indicato nella sentenza Csm, sez. disciplinare, 20 novembre 2009, ove era stata sanzionata la condotta del pm il quale, reiteratamente negli anni, aveva omesso di definire un numero elevatissimo di procedimenti penali dopo la scadenza dei termini per le indagini preliminari, dando, invece, priorità ad altri procedimenti, pur oggettivamente più complessi. Anche in detto caso la scelta era stata improntata non a criteri obiettivi e predeterminati, bensì assunta in violazione del criterio cronologico.
7. Priorità e nuova Circolare sulle Procure.
A riprova della attualità del tema delle “priorità”, specie per il costante ricorso che vi fanno i dirigenti degli uffici giudiziari nei loro provvedimenti organizzativi, il Csm, con la nuova Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura, con stretto riferimento ai moduli organizzativi fondati su criteri predefiniti di priorità nella trattazione dei procedimenti, conferma le linee di tendenza sopra delineate, favorevoli all’adozione ed estensione omogenea dei suddetti strumenti di organizzazione nelle Procure, ritenuti espressione di una prassi virtuosa, in quanto funzionali a dare, tra l’altro, attuazione ai principi costituzionali.
In particolare il Csm, mira a far diffondere in modo uniforme ed omogeneo dette prassi, puntando alla definizione di protocolli congiunti tra Procure e rispettivi Uffici Giudicanti, col coinvolgimento delle Procure Generali, al fine di garantire continuità tra le scelte di priorità investigative e dibattimentali, e anticipando a monte, grazie appunto al concerto dei protocolli con le Procure Generali, la soluzione di eventuali distonie legate al potenziale esercizio diffuso del potere di avocazione.
Diverse, infatti, sono le disposizioni che si occupano dello specifico tema dei criteri di priorità.
Tra queste, meritano particolare menzione: l’art. 3, comma
Il combinato disposto delle norme testé richiamate, in piena linea di continuità con i deliberati consiliari richiamati, mira a dare concreta ed effettiva attuazione al fondamentale principio della ragionevole durata del processo, cristallizzando ed esaltando la regola dell’interlocuzione ovvero di leale e fattiva collaborazione tra i dirigenti degli uffici giudicanti e requirenti e, quindi, in ultima analisi, attraverso un rafforzamento della condivisione organizzativa in materia di priorità nel settore penale.
Inoltre, l’art. 7, comma 2 della citata Circolare, in materia di contenuto del progetto organizzativo dell’ufficio di Procura, stabilisce che: :“ I criteri di organizzazione dell'ufficio sono stabiliti sulla base di una valutazione dei flussi di lavoro e dello stato delle pendenze, nonché di una analisi dettagliata ed esplicita della realtà criminale nel territorio di competenza individuando - ove le dimensioni dell’ufficio lo consentano ed in ogni caso negli uffici dotati della funzione semidirettiva - le articolazioni interne in gruppi di lavoro, con l'indicazione dei magistrati designati, secondo i criteri all’uopo stabiliti, a comporli e a coordinarli, nonché gli eventuali criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti e gli obbiettivi di smaltimento dell'arretrato”.
Anche tale disposizione è finalizzata a esaltare la rilevanza dei criteri di priorità, rendendone effettiva l’incidenza una volta che il Procuratore della Repubblica, nell’esercizio del suo potere organizzativo, li abbia fissati nel progetto di gestione dell’ufficio.
Si introduce, inoltre, il principio secondo cui il Procuratore della Repubblica, nello stabilire i criteri di organizzazione dell'ufficio, deve tener conto, tra l’altro, anche dei criteri di priorità eventualmente stabiliti. Al riguardo si richiama, infatti, l’art. 7, comma 5, lett. l), a termini del quale “Il progetto organizzativo contiene eventualmente: i criteri di priorità nella trattazione degli affari”.
Tale ultima disposizione costituisce mera e coerente esplicazione della previsione generale introdotta dal citato art. 3, comma 2.
Significativo appare, quindi, il disposto dell’art. 17, comma 1, lett. a, in cui si stabilisce che: “Nelle determinazioni sull’impiego del personale amministrativo e sull’utilizzo delle risorse tecnologiche e finanziarie, il Procuratore della Repubblica: a) provvede a programmare l’impiego del personale amministrativo e la gestione delle risorse finanziarie e tecnologiche dell’ufficio coerentemente con l’analisi dei carichi di lavoro e con i criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti eventualmente fissati, collaborando, nel rispetto dei ruoli e delle competenze stabilite dalla legge, con la dirigenza amministrativa”.
Appare evidente la ratio della disposizione: attribuire rilevanza ai criteri di priorità eventualmente fissati non solo sul piano dell’organizzazione dell'ufficio, ma anche su quello più strettamente operativo della distribuzione delle risorse e dell’utilizzo del personale.
[1] Il primo provvedimento, che fissò criteri di priorità, fu la circolare dell’8 marzo 1989 del Presidente della Corte d’Appello e del Procuratore generale di Torino, seguita dalla direttiva del 16 novembre 1990 della Procura della Repubblica presso
[2] Sulla obbligatorietà dell’azione penale, Corte cost. 84/1979 e 88/199, e in dottrina G. Di Federico, Obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero, in Giur. it., 2009, 522, e, Uffici requirenti e ruolo del P.M. in prospettiva comparata, in Digesto delle discipline penalistiche, VI agg., 2011, 835-845, che considera il principio dell’obbligatorietà la principale causa della lentezza della giustizia penale; R.E. Kostoris, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, in Riv. dir. Proc., 2007, 875; L. Luparia, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale nel quadro comparativo europeo, in Giur. it., 2002, 1751; A. Peri, Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità. La modellistica delle fonti tra esperienze recenti e prospettive de iure condendo: un quadro ricognitivo, www.forumcostituzionale.it, 2.
[3] Sul dibattito relativo all’indipendenza dei pubblici ministeri, T. Coletta, Il pubblico ministero nella riforma, in AA.VV., Guida alla riforma dell’ordinamento giudiziario, Milano, 2007, 235-295, ove si sottolinea la distinzione tra indipendenza esterna dal potere politico, in totale assimilazione ai colleghi giudicanti, che rende il modello italiano, espresso dall’art. 104 Cost., assolutamente originale rispetto a quelli adottati nelle altre democrazie moderne; e indipendenza interna, nell’ambito della struttura organizzativa, che appare alquanto compressa in considerazione del modello verticistico e piramidale adottato dal legislatore a contenimento della “debordanza investigativa” o “abuso giudiziario”, conseguente alla personalizzazione delle funzioni requirenti, e allo scopo di attribuire, invece, al capo di ciascun ufficio la responsabilità effettiva e unitaria della gestione dell’azione penale. Tale modello verticistico, consentito dall’interpretazione letterale dell’art. 101 Cost. che enuncia solo per i giudici la loro soggezione esclusivamente alla legge, con l’evidente ratio di garantire solo ad essi e non anche ai pubblici ministeri l’indipendenza dagli altri singoli soggetti che compongono complessivamente l’ordine giudiziario (ossia gli altri giudici e i capi dei loro uffici), riverbera i suoi effetti anche rispetto alla tematica affrontata, atteso che i criteri di priorità sono riversati negli atti organizzativi del capo dell’ufficio che si traducono in specifiche direttive ai sostituti su ciò che in concreto possono investigare in base a ciò che il capo vorrà consentire, posto che è il titolare esclusivo dell’azione penale. Esaustivo anche A. Nicolì, Uffici requirenti, in Digesto delle discipline penalistiche, VI agg., 2011, 794-834; G. Di Federico, Uffici requirenti, op. cit. ove si evidenzia in termini assai critici come in nessun altro paese democratico l’indipendenza del pubblico ministero è tanto ampia (p. 837).
[4] G. Di Federico, Uffici requirenti, op.cit., 839, che elenca le disfunzioni sistemiche generate dal principio di obbligatorietà dell’azione penale, quali l’ineffettività del relativo principio costituzionale, cui consegue la vanificazione del principio costituzionale dell’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge, e ricorda la scelta francese di non introdurre nell’ordinamento il principio di obbligatorietà, ritenuto principio inapplicabile attesa l’impossibilità di perseguire tutti i reati e dal quale consegue inevitabilmente la necessità di compiere scelte di priorità.
[5] Sul punto T. Coletta, op.cit., 256, che in occasione dell’analisi sul principio di uniformità nell’esercizio dell’azione penale paventa tante “monadi giudiziarie quante sono le procure esistenti”.
[6] A. Marandola, Particolare tenuità del fatto, in Digesto delle discipline penalistiche, IX agg., 2016, 507-516, che ricorda che l’istituto era da tempo applicato in sede minorile e nel rito onorario. È stato costruito dal legislatore come un meccanismo affidato al giudice per escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni quando risulta la particolare tenuità dell’offesa e il comportamento non è abituale. Pertanto, l’istituto rispetta il principio di obbligatorietà dell’azione penale, poiché, il pm può esercitarla, se anche ritiene sussistente la tenuità, dovendosi inquadrare come causa di non punibilità. Oppure, in alternativa, il pm può chiedere l’archiviazione per assoluta marginalità del fatto con avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa. L’inazione è conseguente alla valutazione sulla sostenibilità in giudizio della notizia di reato. Tuttavia, un orientamento dottrinale ritiene che l’istituto della particolare tenuità attenga al protocollo archiviativo e, quindi, che sia preferibile classificarla come condizione di procedibilità che si sostanzia in un limite all’esercizio dell’azione penale.
[7] A. Nicolì, Uffici requirenti, op. cit., 808, 813.
[8] Al riguardo, si riportano i più significativi provvedimenti del Csm: la delibera 8 aprile 1999, la delibera 24 dicembre 1999, la decisione 20 giugno 2006, la risoluzione 9 novembre 2006, la delibera 15 maggio 2007, la delibera 12 luglio 2007, la risposta al quesito 10 ottobre 2007, la risoluzione 13 novembre 2008 la risoluzione 21 luglio 2009, la delibera 9 luglio 2014, la delibera 17 giugno 2015, la risposta al quesito 11 maggio 2016, e, da ultimo, la delibera 7 luglio 2016.
[9] G. Grasso, Sul rilievo dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali nelle delibere del Csm e nelle pronunce della sezione disciplinare, in Foro it., 2015, III, p.48, a cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia.
[10] M.M. Monaco, Avocazione delle indagini, in Digesto delle discipline penaliste, V agg., 2010, 63-70, che evidenzia come l’avocazione è per natura inquadrata sistematicamente nell’ambito dei rapporti gerarchici. Pertanto, la dottrina ha tentato di capire se tale istituto, applicato agli uffici requirenti, sia significativo della sussistenza di un rapporto di subordinazione, concludendo nel senso negativo, e ritenendolo, piuttosto, espressione di un sistema di controlli a tutela dei principi generali e dell’efficacia dell’attività di accertamento dei reati, che porta solo a uno speciale rapporto di sovraordinazione, caratterizzato da un potere di vigilanza sull’attività e non sugli atti delle procure. Infatti, il legislatore limita il potere del procuratore generale a ricorrere all’avocazione, a casi specifici, indicandogli anche l’effettiva funzione che ogni ipotesi ammessa deve perseguire, e lo obbliga a trasmettere il provvedimento al Csm, che verifica che l’avocazione non sia abusivamente utilizzata come strumento di ingerenza gerarchica per condizionare la scelta di esercitare o meno l’azione penale; v. anche A. Nicolì, Uffici requirenti, op. cit.; L. Russo, I criteri di priorità, op. cit..
[11] G. Grasso, Sul rilievo dei criteri di priorità, op. cit.