SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Il caso: il compenso professionale dell’avvocato preventivamente pattuito con il cliente; 3. La decisione; 4. L’integrazione del contratto e la portata della buona fede integrativa; 5. Intervento correttivo del Giudice e autonomia contrattuale; 6. Spunti sovranazionali sulla portata della buona fede integrativa; 7. Conclusioni.
1. INTRODUZIONE
La tematica della buona fede integrativa quale strumento di correzione del contratto da parte del Giudice è particolarmente attuale e discussa. Il rapporto tra eteronomia e autonomia privata nell’integrazione del contratto è tornata di particolare rilievo e, anche alla luce del sempre maggior numero delle fonti dell’ordinamento, è fondamentale comprendere se l’art. 1374 c.c. individui un elenco tassativo delle possibili fonti integrative.
La questione assume particolare rilievo in relazione alla possibilità o meno di ricondurre la buona fede oggettiva alle fonti di integrazione del contratto e alla possibilità del Giudice di intervenire, correggendolo, sul negozio predisposto dalle parti.
La sentenza che si annota affronta la delicata questione del rapporto tra integrazione correttiva e autonomia privata, affermando un potere di controllo del Giudice sul contratto nell’interesse dell’ordinamento, al fine di evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro cui questa sia meritevole di tutela.
2. IL CASO: IL COMPENSO PROFESSIONALE DELL’AVVOCATO PREVENTIVAMENTE PATTUITO CON IL CLIENTE
La vicenda oggetto della sentenza sorge da un’opposizione a decreto ingiuntivo, con cui il Tribunale di Treviso aveva ingiunto ai clienti di un avvocato il pagamento in suo favore del compenso per le prestazioni professionali rese per un’attività giudiziale di primo grado e per quella relativa alla fase di appello.
Le parti avevano sottoscritto un contratto nel quale si determinava una prima somma dovuta per l’attività svolta nel primo grado di giudizio e il pagamento di € 2.500,00 oltre accessori per l’appello. Non essendo contestata la debenza degli importi relativi al primo grado, l’opposizione era relativa solo ai compensi relativi al secondo procedimento.
Il mandato per la fase di appello veniva conferito il 6 luglio 2016, con termine di proposizione del giudizio il 14 luglio 2016. Gli opponenti eccepivano di aver revocato l’incarico al professionista il 9 luglio 2016, prima del deposito del ricorso introduttivo, e di non dover dunque versare nulla per le fasi di studio della controversia e di redazione. L’avvocato, invece, chiedeva il pagamento di quanto stabilito convenzionalmente per lo studio della pratica.
3. LA DECISIONE
La sentenza che si annota è di particolare interesse e merita l’attenzione degli studiosi, inserendosi nel filone giurisprudenziale sempre più consistente che riconosce un potere correttivo del contratto da parte del Giudice. Non solo viene affermato tale principio, legandolo a doppio filo alla tutela dell’interesse generale dell’ordinamento all’equità contrattuale, ma uno dei principali pregi della decisione è di farne applicazione in una materia in cui non era ancora stato adottato da parte della giurisprudenza di legittimità.
Il redattore, al quale va riconosciuto il pregevole merito aver motivato con chiarezza e limpidità il principio di diritto posto alla base della sentenza, nonostante emanata a seguito di trattazione orale ex art. 281 sexies c.p.c., ha ritenuto da un lato che il professionista avesse svolto una propedeutica attività di studio, considerato il breve termine di impugnazione, ma dall’altro che l’importo stabilito nella convenzione tra le parti fosse manifestamente eccessivo nel caso concreto, “dovendosi riferire ad uno studio completo della controversia che (anche a fronte del fatto che residuavano ulteriori 5 giorni per la proposizione dell’atto di appello) sarebbe certamente continuato qualora il rapporto di fiducia fra avvocato e cliente fosse proseguito”. Essendo trascorsi solamente tre giorni tra il conferimento del mandato e la sua revoca, la sentenza in esame ha ridotto l’importo del compenso convenuto tra i contraenti, ritenuto appunto manifestamente eccessivo, condannando i clienti al pagamento di una somma inferiore rispetto a quella stabilita dalle parti in base alla propria autonomia contrattuale.
4. L’INTEGRAZIONE DEL CONTRATTO E LA PORTATA DELLA BUONA FEDE INTEGRATIVA
Nel codice civile la tematica dell’integrazione del contratto è specificamente trattata all’art. 1374 c.c., che individua quali fonti integrative la legge, gli usi e l’equità. Nel tempo, gli studiosi si sono chiesti se tale elenco debba o meno ritenersi tassativo e se possano venire in rilievo anche altre norme, quali l’art. 1375 c.c., che si occupa della buona fede in executivis[1].
Dal riferimento del solo art. 1374 c.c. all’integrazione contrattuale potrebbe conseguire l’esclusione di qualsiasi altra fonte che non sia in esso specificamente indicata. Di quest’avviso è la dottrina maggioritaria, che si schiera a favore della tassatività del dettato della norma, individuando come fonti integrative solamente la legge, gli usi e l’equità. Pur sostenendo questa tesi, però, non si esclude la possibilità di riconoscere una portata integrativa alla buona fede, disciplinata nell’art. 1375 c.c. e dunque inserita in una specifica disposizione codicistica. Pertanto, tale filone dottrinale sostiene operi un’integrazione per legge[2], superando così il problema della tassatività delle fonti di integrazione del contratto.
Nonostante ciò, l’integrazione secondo buona fede non può però essere superficialmente accostata a quella con singole norme puntuali[3]: infatti, il Giudice svolge un ruolo fondamentale, riempiendo di contenuto la clausola generale e adattandola al caso concreto che si pone al suo vaglio.
Ancor molte sono le voci in dottrina che sostengono che la buona fede non possa integrare il contratto, individuandone l’ambito applicativo solo nella fase esecutiva del negozio[4]. L’impossibilità si riscontrerebbe sia sulla base della collocazione della clausola generale in una norma differente dall’art. 1374 c.c., sia per l’operatività solo successiva della buona fede rispetto alla costruzione del regolamento inter partes[5].
Certamente l’art. 1375 c.c. disciplina il comportamento che devono tenere le parti nell’esecuzione del contratto, ma ciò non significa che tale regola non possa convivere con la possibilità di integrazione dello stesso per mezzo della buona fede. Anche la Corte di Cassazione si è espressa in tal senso, affermando che anche se riferita al momento esecutivo, la clausola generale conserva la sua funzione integrativa del rapporto, atteggiandosi a regola obiettiva che concorre a determinare il comportamento dovuto dai contraenti[6].
Deve anzitutto evidenziarsi che nella sentenza che si annota sono richiamate sia la buona fede sia l’equità, facendo anche riferimento alla pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite relativa alla riduzione d’ufficio della penale manifestamente eccessiva da parte del Giudice[7].
La dottrina maggioritaria preferisce distinguere buona fede ed equità in ambito integrativo[8]. Infatti, quest’ultima non viene considerata una clausola generale e, per tale ragione, avrebbe una rilevanza specificamente attinente al riequilibrio del singolo caso[9].
In realtà, si può ritenere che la distinzione nell’operatività della buona fede e dell’equità nell’integrazione del contratto da parte del Giudice sia meramente concettuale e volta soltanto a fini classificatori. Non può sottacersi, infatti, come le due fonti si intreccino costantemente tra loro nel vaglio che il magistrato deve effettuare nella decisione del caso concreto che si pone alla sua attenzione[10]. Inoltre, come ben emerge dalla sentenza del Tribunale di Treviso, la buona fede genera per entrambi i contraenti obblighi ulteriori rispetto a quelli stabiliti nel titolo, al fine di “salvaguardare l’utilità della controparte nel limite dell’apprezzabile sacrificio”.
5. INTERVENTO CORRETTIVO DEL GIUDICE E AUTONOMIA CONTRATTUALE
Il nodo gordiano della questione è comprendere se e fino a che punto il Giudice possa intervenire sul regolamento contrattuale predisposto dalle parti, modificando e correggendo quanto dalle stesse stabilito in base alla propria autonomia.
Ci si chiede in particolare se il contratto, espressione massima della volontà e dell’autodeterminazione dei paciscenti, possa essere integrato e corretto da fonti esterne e soprattutto da parte di un soggetto terzo chiamato a decidere la controversia.
In termini generali, la dottrina consolidata distingue tra integrazione suppletiva e integrazione cogente: la prima ha la funzione di riempire le eventuali lacune del regolamento, colmando così un vuoto presente nello stesso, mentre l’integrazione cogente «non supplisce un accordo mancante, bensì si sovrappone a un accordo esistente tra le parti, ma disapprovato dall’ordinamento giuridico perché violatore di interessi o valori preminenti»[11]. Una demarcazione così netta tra integrazione suppletiva e cogente può essere forse utile a livello didattico[12], ma non trova la condivisione di tutti gli interpreti. Il problema si pone in particolare in relazione alla classificazione dell’equità e della buona fede tra le fonti di integrazione suppletiva, che in quanto tale non potrebbe mai sovrapporsi alla volontà espressa dalle parti nel contratto.
Ad oggi, si può ritenere che non vi sia più spazio per la catalogazione delle singole fonti nei confini o della sola integrazione suppletiva o della sola integrazione cogente[13] e si potrebbe forse ripensare all’utilità o meno di una classificazione rigida, intendendo l’integrazione come un fenomeno da inserire in un ordinamento in evoluzione. Infatti, se un tempo si riteneva che l’autonomia contrattuale fosse regina indiscussa del contratto, oggi si assiste sempre più al tramonto del dogma della volontà e il dominio delle parti è spartito con le fonti di integrazione eteronome.
L’integrazione del contratto, anche da parte del Giudice, non può più ritenersi come un prepotente assedio alla volontà dei contraenti[14], ma va ricondotto a un riequilibrio del negozio, a tutela dell’ordinamento e delle parti stesse. La statuizione del giudicante non deve considerarsi come una prepotente intrusione nel contratto predisposto, ma quale strumento di riequilibrio delle clausole inique, come nel caso concreto oggetto della sentenza che si annota.
Secondo la dottrina maggioritaria, il Giudice non potrebbe mai correggere il contratto, prevalendo sempre l’autodeterminazione delle parti[15]. L’unica eccezione si riscontrerebbe nel caso di clausola penale manifestamente eccessiva, la cui riduzione sarebbe espressione di un’integrazione cogente[16] capace di sovrapporsi alle pattuizioni dei contraenti.
In relazione a tali aspetti, è centrale la tematica della giustizia contrattuale. Se in un primo momento si riteneva che l’autonomia privata fosse sufficiente a garantire una giustizia sostanziale del contratto, con il mutamento della società, del mercato e dell’ordinamento si sono dovuti ricercare degli strumenti differenti volti a raggiungere tale risultato. Ciò è particolarmente evidente qualora si pensi alla presenza sempre maggiore della contrattazione di massa e degli abusi posti in essere a discapito dei contraenti più deboli, non in grado di far valere i propri interessi di fronte al professionista.
6. SPUNTI SOVRANAZIONALI SULLA PORTATA DELLA BUONA FEDE INTEGRATIVA
Il tessuto normativo europeo e sovranazionale, anche di soft law, parrebbe creare delle aperture alla possibilità di riequilibrio delle prestazioni mediante la clausola di buona fede, soprattutto a tutela della parte più debole.
Degli spunti si potrebbero trarre dai Principles of European Contract Law, che all’articolo 4: 109 prevedono: «Upon the request of the party entitled to avoidance, a court may if it is appropriate adapt the contract in order to bring it into accordance with what might have been agreed had the requirements of good faith and fair dealing been followed». In tal caso, l’intervento correttivo mediante buona fede è inserito in una prospettiva di conservazione del contratto[17], anche se è pur sempre presente un impulso della parte legittimata a far valere l’invalidità del negozio.
Previsione simile si riscontra anche nei Principi Unidroit, sempre in tema di gross disparity, all’art. 3.2.7 par. 2, in cui si stabilisce la possibilità del Giudice di adattare il contratto al fine di renderlo conforme a i criteri ordinari di correttezza del commercio, ma sempre in seguito alla richiesta della parte legittimata a chiedere l’annullamento del negozio.
Anche tali previsioni, seppur relative allo specifico ambito della conservazione del contratto, sono utili a comprendere la portata sempre maggiore della buona fede, che non comporta necessariamente una sovrapposizione negativa del Giudice rispetto all’autonomia dei contraenti.
7. CONCLUSIONI
I repentini mutamenti dell’ordinamento, la rilevanza sempre maggiore del diritto comunitario e l’influenza del mercato sulle relazioni giuridiche comportano la necessità di ripensare ad alcuni istituti civilistici, tra cui quello dell’integrazione contrattuale. Il contratto sta cambiando volto, non essendo più disciplinato soltanto dalla volontà delle parti, ma anche da fonti eteronome, il cui intervento necessita di una rivalutazione. In particolare, equità e buona fede non possono essere più considerate soltanto come fonti suppletive di integrazione, anche secondo le indicazioni che si desumono dall’ordinamento comunitario e dai progetti di redazione del diritto europeo dei contratti.
L’autonomia privata non è più fortezza inespugnabile della signoria delle parti nella regolamentazione dei loro rapporti e, in un mercato sempre più globalizzato, in cui si è assistito a un incremento degli scambi e a una standardizzazione degli strumenti utilizzati rispetto ai primi anni di vigenza del codice civile, risulta importante cercare di tutelare le parti, soprattutto in presenza di una disparità di forza contrattuale.
È certamente comprensibile il timore di un potere del Giudice troppo invasivo sul contratto[18], ma si ritiene sia necessario ripensare al rapporto in generale tra cogenza e autonomia privata. L’integrazione correttiva, infatti, non deve essere sempre ritenuta negativa e restrittiva dell’autonomia[19], in quanto l’intervento eteronomo può essere un positivo ausilio per le parti.
Certamente l’essenza del contratto non può essere snaturata, dovendo sempre consistere nella volontà dei contraenti, ma, come evidenziato anche nella sentenza che si annota, deve ritenersi che sia immanente al nostro ordinamento un potere di controllo del Giudice sulle statuizioni negoziali, “al fine di evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro cui appare meritevole di tutela”.
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Trib. Treviso, sez. I, sent. 1956/2018, 8 ottobre 2018; Giudice dott. Alberto Barbazza
Compenso professionale avvocato – convenzione per il pagamento delle prestazioni – manifesta eccessività – riduzione d’ufficio del giudice – buona fede integrativa.
La buona fede integrativa permette al Giudice di ridurre d’ufficio il compenso professionale dell’avvocato pattuito con il cliente quando risulti manifestamente eccessivo.
Tale potere trova il suo fondamento nella tutela dell’interesse generale dell’ordinamento all’equità contrattuale, al fine di ricondurre l’autonomia negoziale nei limiti in cui essa appaia meritevole di tutela.
Il Giudice, pertanto, ha un potere di controllo sulle pattuizioni delle parti mediante la clausola generale della buona fede integrativa, che si concreta in una duplice direzione, prevedendo l’obbligo per entrambi i contraenti di salvaguardare l’utilità della controparte nel limite dell’apprezzabile sacrificio.
Il rapporto obbligatorio è caratterizzato quindi da una struttura complessa, in quanto il principio di correttezza si pone come fonte di doveri ulteriori che vincolano le parti, nonostante questi non risultino specificamente dal titolo.
In particolare, il creditore ha il divieto di abusare del proprio diritto e, allo stesso tempo, l’obbligo di attivarsi per evitare o contenere gli imprevisti aggravi della prestazione o le conseguenze dell’inadempimento.
[Omissis] “Risulta dalle allegazioni e dalla documentazione depositata dalle parti che il conferimento dell’incarico professionale per la fase d’appello risalga al 6 luglio 2016 (occorre precisare che il mandato depositato non è sottoscritto dalle parti, ma non è stato contestato).
Il termine per proporre giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado era il 14 luglio 2016, e l’atto di citazione in appello non è stato depositato, essendo intervenuta la revoca del mandato in data 9 luglio 2016.
Le parti nel conferimento di incarico prevedevano un compenso (comprese spese generali) di € 2.500,00 oltre IVA e Cp per la fase di studio della controversia. Per lo scaglione di valore del procedimento in oggetto, il tariffario professionale di cui al D.M. 55/2014 prevede, per la fase di studio, un compenso medio di € 1.960,00 e minimo di € 980,00 (oltre spese generali, IVA e Cp).
L’art. 233 cod. civ. prevede che, per la determinazione del compenso nel caso di prestazione d’opera intellettuale, l’importo vada determinato innanzitutto in base a quanto convenuto dalle parti e, solo in subordine ed in mancanza di accordo, secondo le tariffe.
Nel caso di specie, appare necessario applicare, pertanto quanto previsto dalla convenzione in essere fra le parti per la fase di appello.
Tuttavia, se da un lato, stante la così imminente scadenza del termine per impugnare, appare certo che sia stata svolta dal convenuto una propedeutica attività di studio, dall’altro, stante il termine di soli tre giorni fra conferimento dell’incarico e revoca del mandato, l’importo convenuto dalle parti va ritenuto manifestamente eccessivo, dovendosi riferire ad uno studio completo della controversia che (anche a fronte del fatto che residuavano ulteriori 5 giorni per la proposizione dell’atto di appello) sarebbe certamente continuato qualora il rapporto di fiducia fra avvocato e cliente fosse proseguito.
Già nel 2005, in tema di clausola penale le Sezioni Unite (sent. 18128/2005) hanno ritenuto che il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 cod. civ. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, possa essere esercitato anche d’ufficio, al fine di ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva (come era nel caso al vaglio del Supremo Collegio nel 2005), sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avvenga per altre ragioni.
Nello sviluppo della giurisprudenza, alla riduzione d’ufficio della clausola penale sono state assimilate altre situazioni, nelle quali le parti abbiano dedotto e dimostrato circostanze rilevanti al fine di formulare il giudizio di manifesta eccessività (ad esempio, in tema di riduzione della la clausola con cui si determina convenzionalmente la misura degli interessi moratori con funzione liquidativa del risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento di obbligazioni pecuniarie, cfr. Cass. 25334/2017).
Deve ritenersi, pertanto, che sia immanente al nostro ordinamento un principio secondo cui, pur nel rispetto dell’art. 1322 cod. civ., viene attribuito al giudice un potere di controllo sulle pattuizioni delle parti, nell’interesse generale dell’ordinamento, al fine di evitare che l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro cui appare meritevole di tutela.
Tale intervento, pertanto, si pone quale limite all’autonomia negoziale stessa, prevista dalla legge non nell’interesse individuale dei paciscenti ma nell’interesse generale dell’ordinamento all’equità contrattuale.
Tale impostazione, inoltre viene avvalorata dall’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in tema di clausola generale di buona fede nell’adempimento del contratto. Infatti, la buona fede deve ritenersi si specifichi nell’obbligo di entrambe le parti di salvaguardare l’utilità della controparte nel limite dell’apprezzabile sacrificio.
La buona fede, pertanto, si concreta in una duplice direzione, ossia nei confronti del creditore fa sì che gli sia vietato di abusare del suo diritto e, allo stesso tempo lo obbliga ad attivarsi per evitare o contenere gli imprevisti aggravi della prestazione o le conseguenze dell’inadempimento.
Dunque, il rapporto obbligatorio è caratterizzato da una struttura complessa in quanto il principio di correttezza si pone come fonte di doveri ulteriori che vincolano le parti ancorché non risultino dal titolo del rapporto obbligatorio.
Pertanto, la somma pattuita di € 2.500,00 deve ritenersi vada ridotta in quanto manifestamente eccessiva della metà, e gli attori condannati alla rifusione al pagamento al convenuto della somma di € 4.242,47 (accessori compresi) per il giudizio di primo grado e di € 1.250,00 (oltre IVA e Cp) per la fase di studio del giudizio di appello”. [Omissis]
[1] La buona fede che rileva nell’integrazione del contratto è la cosiddetta buona fede oggettiva, regola di comportamento reciprocamente leale e onesto. Non rientra invece nell’area operativa dell’integrazione la buona fede soggettiva, stato psicologico di ignoranza incolpevole di ledere un altrui diritto.
[7] Cass. civ., Sez. Unite, 13 settembre 2005, n. 18128.
[10] Per parte della dottrina, equità e buona fede potrebbero ricondursi all’unica categoria delle regole di opinione (SACCO, L’integrazione, cit., pp. 1393 ss).
[11] ROPPO, Il contratto, cit., p. 471.
[14] Quest’ultima teoria si fondava in particolare sul meccanismo della sostituzione automatica di clausole, di cui all’art. 1339 c.c. In base a tale norma, quando una clausola del contratto è contraria a una norma imperativa, quest’ultima la sostituisce di diritto.
[17] Ciò è confermato dal commento G alla norma, nel quale si legge: «It may not be appropriate simply to set aside the contract which is excessively advantageous. The disadvantaged party may wish the contract to continue but in modified form», Principles of European Contract Law, pts. I and II, edited by O. Lando and H. Beale, The Hague, 1999, p. 263.
[18] Sempre guardando alle fonti internazionali, ciò emerge anche dal commento G all’art. II. –9:101 DCFR, che disciplina, nel secondo paragrafo, l’integrazione giudiziale del contratto nel caso di lacune. Il potere del Giudice viene definite eccezionale, «because of the danger of giving courts too much power to rewrite contracts according to their own ideas of what the parties should have provided».