Con l’entrata in vigore della l. 23.6.2017, n. 103 (riforma Orlando), viene ripristinato il concordato delle parti sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con eventuale rinuncia ai restanti motivi di appello.
Comunemente invocato come “patteggiamento in appello”, l’istituto era già presente, seppur con qualche differenza, nel codice Vassalli del 1988; dopo una pronuncia di incostituzionalità nel 1990 (v. Corte cost., n. 435 del 1990, in Cass. pen., 1990, II, p. 362 con nota di Lattanzi, Il patteggiamento in appello: un incompreso) e una nuova edizione nel 1999 (v. Spangher, Ritorno alle origini per il patteggiamento sui motivi d’appello, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 145 ss.), è stato definitivamente abrogato nel 2008 (v. Gaeta – Macchia, L’appello, in Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, vol. V – Impugnazioni, Utet, 2009, 593 ss.).
In particolare, la novella legislativa introduce nel codice di procedura penale l’art. 599 bis a tenore del quale “la corte provvede in camera di consiglio anche quando le parti, nelle forme previste dall’articolo 589, ne fanno richiesta dichiarando di concordare sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi. Se i motivi dei quali viene chiesto l’accoglimento comportano una nuova determinazione della pena, il pubblico ministero, l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria indicano al giudice anche la pena sulla quale sono d’accordo”.
Si tratta, in sostanza, di una procedura che consente di definire il giudizio di impugnazione in forma semplificata – applicandosi le forme previste per la camera di consiglio dall’art. 127 c.p.p. anziché procedere con quelle dell’udienza pubblica – con la quale prima che inizi il dibattimento d’appello, le parti concordano nel sostenere tutti o parte dei motivi di appello, con eventuale rinunzia agli altri. Se l’appello è avverso una pronunzia di condanna e i motivi oggetto dell’accordo incidono sulla misura della pena, le parti indicano altresì la pena concordata.
Sotto il profilo operativo, poi, se il giudice ritiene di non poter accogliere tale congiunta la richiesta ordina la citazione a comparire al dibattimento. In questo caso la richiesta e la rinuncia perdono effetto, ma possono essere riproposte nel dibattimento. ai sensi del comma 1 bis dell’art. 602 c.p.p., che prevede che “se le parti richiedono concordemente l’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello a norma dell’articolo 599 bis, il giudice, quando ritiene che la richiesta deve essere accolta, provvede immediatamente; altrimenti dispone la prosecuzione del dibattimento. La richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto se il giudice decide in modo difforme dall’accordo”.
Anche se ricorda l’istituto del patteggiamento di primo grado previsto dagli artt. 444 e seg. c.p.p., il concordato in appello, nel condividerne la finalità deflattiva, vi si sovrappone soltanto per taluni aspetti: non è previsto l’automatico premio della diminuzione di un terzo della pena in favore dell’imputato, né il limite dei cinque anni di pena detentiva soli o congiunti alla pena pecuniaria. Viene invece sostanzialmente ripresa la norma di cui al comma 1 bis dell’art. 444 c.p.p. Ed invero, come previsto in quest’ultima disposizione, il nuovo art. 599 bis c.p.p., a differenza della precedente versione abrogata nel 2008, esclude dall’ambito di operatività del concordato i delitti di criminalità organizzata di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, i procedimenti per i delitti in materia sessuale di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600-quater, secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza.
Ulteriore elemento innovativo, almeno sulla carta, è che, senza negare la tradizionale autonomia dei pubblici ministeri dai vincoli gerarchici, la norma prevede che il Procuratore generale presso la Corte d’Appello senta i magistrati dell’ufficio e i Procuratori della Repubblica del distretto per indicare “i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del pubblico ministero nell’udienza d’appello, tenuto conto della tipologia dei reati e della complessità dei procedimenti”. La previsione non deve essere letta, ovviamente, nel senso che il Procuratore generale presso la Corte d’Appello ha l’onere di orientare l’attività dei magistrati del suo ufficio nella singola udienza, ma piuttosto che debba loro offrire indicazioni a carattere generale sulla base del tipo di reato e della difficoltà del processo.
In definitiva, appare chiaro l’intento deflattivo che sottende la ratio dell’istituto e l’idea di farlo rivivere. Nella relazione conclusiva della Commissione Canzio si osserva, infatti, che le proposte di modifica, nell’ottica di razionalizzazione, deflazione ed efficacia delle procedure impugnatorie, investono, ex plurimis, proprio il ripristino del concordato sulla pena in appello.
Del resto, come è stato autorevolmente osservato (G. Spangher (a cura di), La riforma Orlando. Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario, Pisa, 2017), l’appello è da sempre considerato il momento più problematico della sequenza procedimentale processuale sia nei sistemi inquisitori, sia in quelli accusatori. Ritenuto responsabile dell’allungamento dei tempi di definizione della vicenda processuale, non appare in linea né con le istanze autoritarie, né con la logica dell’oralità. Ed allora, rifiutando culturalmente – e ragionevolmente – la possibilità di eliminare l’istituto dell’appello dal nostro ordinamento, si è tentato di sottoporlo ad un lifting giuridico per attualizzarne la funzione.