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Magistratura Indipendente

PENALE  

Assoluzione e rimborso delle spese: molto giusto, a volte troppo?

  Penale 
 martedì, 19 gennaio 2021

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di Cesare PARODI, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica  del Tribunale di Torino

 
 

Sommario: 1. Premessa: tutti d’accordo? - 2. Le indicazioni della norma. - 3. I limiti “visibili”. - 4. I limiti strutturali della riforma: discrezionalità e certezze.

 

  1. Premessa: tutti d’accordo?

 

Mi è capitato spesso (troppo) di provare a scrivere di diritto: in qualche occasione – poche, fortunatamente- ancora prima di avere scritto, ho percepito una certa preoccupazione. Ecco, questo è uno di questi casi. Eppure, credo che forse proprio in questi casi sia necessario andare sino in fondo.

Mi spiego: a leggere le motivazioni fornire dalla politica per la riforma che dovrebbe introdurre nel codice di procedura penale l’art. 177 bis, rubricato, "Rimborso spese legali per gli imputati con sentenza penale divenuta irrevocabile", pare difficile non essere d’accordo, da qualsiasi punto si voglia inquadrare il problema.

In concreto, viene inserito nel procedimento penale il principio generale di soccombenza, già presente in ambito civile e amministrativo. Principio riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale, (sentenza n 77/2018): “È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa”; il costo del processo deve essere supportato da chi ha reso necessaria l'attività del giudice e ha occasionato le spese del suo svolgimento.

Come precisato dal deputato Enrico Costa – uno dei promotori dell’iniziativa - l’obiettivo è quello “mettere nelle mani dei cittadini che sono riusciti a dimostrare la loro estraneità ai fatti contestati e tuttavia sono stati sottoposti al peso del procedimento penale uno strumento che possa parzialmente limitare i danni, almeno sul piano economico.”[1]

Non arduo anche individuare i riferimenti nei principi costituzionale di tale nuova impostazione, a partire dall’art. 111, in tema di giusto processo; e poi, ancora, l’art. 2, ove è previsto che lo Stato riconosce e garantisce a ciascuno i propri diritti, senza accollare ai singoli un costo indebito per la fruizione degli stessi; l'art. 24, quale riconoscimento del diritto di difendersi in giudizio. Infine, in senso lato ma non meno significativo,  l'art.  27, ove si intenda per “pena”- almeno in senso sostanziale- il fatto di essersi un soggetto trovato nella necessità di subire un danno patrimoniale- costituito dalla spese legali- anche in conseguenza dell’accertamento inequivoco della propria innocenza.

Insomma, la domanda sulla condivisibilità del principio sotteso alla riforma assomiglia pericolosamente a quelle del tipo “Vuoi bene alla mamma ?” o “Vorresti la pace tra i popoli?”. Una risposta negativa- o anche solo dubitativa - pare logicamente debole, culturalmente non accettabile e- tra l’altro- socialmente sgradevole.  Di questi tempi, circostanza non irrilevante. Eppure, sappiamo che esistono madri degeneri e  violente alle quali non volere così tanto bene e situazioni di pace che non possono essere mantenute se non a un costo inaccettabile sotto altri profili. E allora, vediamo se, davvero, è tutto così splendido e condivisibile.

 

 

  1. Le indicazioni della norma.

 

Prevede il primo comma del nuovo art. 177 bis c.p.p.: “Nel processo penale, all'imputato assolto con sentenza divenuta irrevocabile perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, è riconosciuto un rimborso delle spese legali nel limite massimo di importo pari a 10.500 euro".

Un principio apparentemente chiaro, che si è voluto “blindare” in prospettiva ermeneutica precisando espressamente (operazione in realtà non indispensabile sul piano logico-sistematico) i casi nei quali lo stesso non potrà essere applicato.

Il presupposto del rimborso delle spese legali deve essere individuato in una sentenza penale divenuta irrevocabile connotata dalle formula sopra riportate, indicative – parrebbe di capire – di una assoluta estraneità- senza ombre e senza macchie, si potrebbe aggiungere-  dell’imputato rispetto alla accuse formulate nei suoi confronti.

In questo senso la norma espressamente esclude il rimborso:

  • in caso di sopravvenuta depenalizzazione
  • in casi di assoluzione "da uno o più capi di imputazione", ma con condanna per altri
  • in caso di assoluzione per estinzione del reato per avvenuta amnistia o prescrizione

Sul piano procedurale, sarà necessario il soggetto assolto dovrà produrre:

- la fattura del difensore con espressa indicazione della causale e dell'avvenuto pagamento

- un parere di congruità del Consiglio dell'ordine degli avvocati.

- l'attestazione della cancelleria dell'irrevocabilità della sentenza di assoluzione.

Il rimborso è previsto in "in tre quote annuali di pari importo", a partire dall'anno successivo "a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile". L’importo non dovrebbe essere considerato- ovviamente- voce di reddito.

 

  1. I limiti “visibili”

 

La riforma presenta limiti, per così dire, strutturali e altri di “sistema”.

La previsione di spesa- 8 milioni di euro all'anno a bilancio – è destinata a coprire le richieste, tenendo conto che il rimborso non potrà in ogni caso superare i 10.500 euro (a sentenza, ovviamente). Lo stanziamento è congruo, idoneo al fabbisogno? Ipotizzando, poniamo, un rimborso “medio” di 5.000 euro, si tratterebbe di ca 1600 assoluzioni “totali”. Un velo di pessimismo sul numero potrebbe essere giustificato, senza voler entrare nel merito dell’importo massimo- 10.500 euro- stabilito. Una valutazione che lasciamo volentieri ai rappresentanti della classe forense.

Come sopra precisato, il legislatore ha cercato di non essere frainteso, esplicitando casi di per sé inequivoci di assenza dei presupposti. Si poteva, verosimilmente, chiarire che anche la formula dubitativa di cui all’art 530 comma 2 c.p.p  , se applicata alle ipotesi dell’art 177 bis comma 1, non dovrebbe- almeno nello spirito della norma- costituire presupposto per il rimborso. Era precisazione di poco momento, ma non inutile forse.

Più ”gravi” - se così si può dire- altre due sostanziali omissioni, destinate verosimilmente- a suscitare dibattiti non brevi e forse non banali, in quanto meno “risolvibili” con una interpretazione della logica generale della riforma.

La prima ha per oggetto il rapporto tra il rimborso dell’art 177 bis c.p.p. e l’azione di rivalsa dello Stato in caso di riconoscimento della responsabilità civile dei magistrati.[2] Come è noto, a seguito dell’accertamento della responsabilità del magistrato, ed entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale, lo Stato esercita obbligatoriamente l’azione di rivalsa nei confronti dello stesso, ex art. 7, comma 1, l. n. 117/1988, novellato dalla l. n. 18/2015, nel caso di diniego di giustizia, ovvero per violazione manifesta della legge o del diritto dell’Unione Europea ovvero di travisamento del fatto o delle prove quando determinati da dolo o negligenza inescusabile.[3] Un momento di coordinamento espresso tra la nuova disciplina sui rimborsi e le indicazione in tema di rivalsa sarebbe stato utile. In termini generali si può ritenere che indubbiamente non ogni ipotesi di rimborso potrà dare luogo a rivalsa, in quanto sarà l’accertamento sulle ragioni dell’assoluzione a dovere essere vagliato in funzione delle indicazioni ora contenute nel menzionato art. 7 comma 1.

La seconda riguarda la valutazione del comportamento dell’imputato assolto. La legge nulla dice al riguardo, ma pare legittimo un confronto con la disciplina in tema di riparazione per ingiusta detenzione, di cui all’art. 314 c.p.p..  Un diritto alla riparazione che è riconosciuto ove il soggetto non abbia dato, o concorso a dare, causa alla misura custodiale con dolo o colpa grave. Si tratta di una formula per certi aspetti non pienamente determinata e che ha portato – pertanto- a risposte giurisprudenziali non univoche, tali da incidere sulla effettiva portata della stessa. Si pensi ai casi nei quali la S.C. ha escluso il diritto all’indennizzo a fronte di un comportamento silenzioso o mendace su circostanze ignote agli investigatori o in base al riconoscimento di frequentazioni imprudenti o ambigue con soggetti gravati da specifici precedenti penali o coinvolti in traffici illeciti, individuando in entrambe le condotte ipotesi di colpa grave. [4] In particolare, la prima delle due situazioni potrà certamente verificarsi in non pochi casi.

Indubbiamente ai sensi dell’art. 358 c.p.p. “Nell'esercizio delle sue funzioni investigative, il pubblico ministero svolge ogni attività necessaria al fine di decidere se esercitare o meno l'azione penale, svolgendo altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.” E’ tuttavia certo che esistono circostanze tali da escludere la responsabilità- si pensi all’alibi, ma non solo- che possono essere conosciute solo dal soggetto che di tali circostanze può essere – o essere divenuto- unico depositario. Verosimilmente, la previsione di una forma di condizionamento del rimborso in casi simili avrebbe giovato al sistema, sia sul piano della distribuzione delle risorse che come forma di “responsabilizzazione” del soggetto indagato/imputato. Non sempre, in sostanza, a fronte della massima diligenza della p.g. e del p.m. è possibile accertare tutto ciò che può portare a una assoluzione. Chi frequenta le aule di giustizia senza ipocrisia, lo sa bene.

Sarà riconosciuto nella prospettiva dei rimborsi un significato  al silenzio, dopo l’avviso di chiusura indagini ex art 415 bis c.p.p. – su circostanza che solo l’indagato e poi imputato in via esclusiva avrebbe potuto “conferire” nell’ambito cognitivo dell’a.g. ? E, in caso necessario, si può davvero parlare di “soccombenza” dell’accusa e di danno che non poteva essere evitato?  

I problemi- che certamente il legislatore ha considerato- non finiscono qui: volendo, iniziano. La riforma, in epoca permeata da una volontà deflattiva - è destinata a infliggere un duro colpo alla diffusione del rito monitorio.  In caso di richiesta di decreto penale sarà evidente che- salvo casi eccezionali- il soggetto si troverà ad essere imputato senza aver potuto avviare una interlocuzione difensiva con la pubblica accusa. In esito alla opposizione non finalizzata all’applicazione di pena su richiesta, verrà celebrato un giudizio nel quale, per la prima volta- gli elementi a favore potranno essere evidenziati. In caso di sentenza di assoluzione, il verificarsi delle condizioni che costituiscono presupposto al rimborso potranno essere sistematici e numerosi. Siamo certi che la pubblica accusa non finirà per accantonare o rivedere le quote di utilizzo di tale strumento? E questo non porterà a un ulteriore collasso sulle sezioni dibattimentali? Chissà. O forse, si potrebbe immaginare o almeno provare a immaginare.

 

  1. I limiti strutturali della riforma: discrezionalità e certezze.

 

Nonostante quanto sopra riportato, questo articolo non sarebbe stato scritto se non si fosse percepita la necessità di affrontare un ultimo problema.

Un processo penale può portare ad accertare la sussistenza di uno o più fatti storici- in termini di certezza o di dubbio- che costituiscono il fondamento della responsabilità. Se un soggetto è morto per un colpo di pistola al cuore, il processo ci dirà se l’imputato gli ha certamente sparato, se certamente non ha sparato o se non ci sono elementi sufficienti per ritenere che abbia sparato. Dopo di che, i problemi di valutazione sul fatto sono finiti (molti altri ne restano) ma un punto fermo, nei sensi indicati, esiste e su quel punto - in prospettiva- sarà valutato il diritto al rimborso in caso di assoluzione. Abbiamo un fatto storico preciso la cui esistenza e/o riferibilità a un soggetto consente di formulare un giudizio "manicheo", di condanna o assoluzione. Dentro o fuori.

Non è sempre così. L’incidenza della riforma sul sistema non potrà determinare conseguenza generalizzate e- per così dire- equamente suddivise nei vari settori del diritto penale, in quanto l’incidenza è destinata a condizionare fortemente soprattutto alcuni settori.

Proviamo a pensare ai maltrattamenti o allo stalking, fattispecie magmatiche dove i margini di valutazione sulla sussistenza del fatto sono molto molto ampi. Si tratta di fattispecie rispetto alle quali la sussistenza o meno del reato può essere legata ad una pluralità di episodi la cui “ lettura“ globale – anche a fronte di una sussistenza certa del fatto storico – può essere condizione da vari fattori, soggettivi come oggettivi. Lo stato di ansia determinato dalla presenza costante di un soggetto che si dichiara spasimante sotto casa non è un dato di inequivoca lettura. Nell’ambito di una ipotesi di maltrattamenti la condotta può essere riconosciuta come derivante da vari e differenti comportamenti di violenza, minaccia, sopraffazione e non la somma algebrica di valori predefiniti; una valutazione complessa e condizionata da molti fattori, il cui esito finale può non essere scontato.

Non si tratta, per altro, solo di ampiezza di discrezionalità - che di per sé potrebbe già essere sufficiente nel momento in cui si deve considerare una prospettiva di possibile responsabilità da “rivalsa” a seguito del riconoscimento del rimborso, quanto anche del “taglio” valutativo che condizione il divenire del procedimento.  Tema spinoso, delicato, realistico e non “accantonabile”.

Sino a oggi, a fronte di situazioni di patologia familiare modificatesi in senso positivo nelle more del dibattimento, si tendeva a "reinterpretare" la sussistenza dei medesimi fatti (anche) in funzione della dinamica dei rapporti tra i soggetti coinvolti.  O siamo tutti convinti che ciò non sia mai accaduto o che si tratti di un atteggiamento certamente errato? Certamente è accaduto e non è così scontato che una considerazione del divenire dei rapporti interpersonali (in un contesto  caratterizzato dalla presenza di interessi “forti” di soggetti “deboli”, quali minori) debba essere irrilevante nella lettura in chiave definitiva del materiale probatorio presentato dal  p.m. . Un’impostazione errata, inaccettabile? Forse, non necessariamente, però, quella che si pone in maggiore contrasto con un esercizio della funzione giurisdizionale sintonica – ove possibile e per quanto possibile- rispetto agli interessi prioritari dei soggetti convolti nelle vicende giudiziarie.  Mettiamo, pertanto, in conto che questa nuova norma, quando sarà “metabolizzata” nel sistema, rischia di modificare  drasticamente molte delle valutazioni in un settore delicato, nel quale proprio la crisi (sanitaria, economica e sociale) che stiamo affrontando ha già determinato conseguenze dirompenti.



[1][1] Come riportato da G. Negri, “Piena assoluzione? Le spese legali le paga lo Stato”, Ilsole24ore.com, 22.12.2020

[2] Quanto alla misura della rivalsa, il comma 3 come modificato dall’articolo 5 della l. n. 18/2015, eleva la soglia di un terzo precedentemente prevista, disponendo che la stessa “non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità”. Tale limite è escluso, tuttavia, se il fatto è stato commesso con dolo.

[3] L’azione è promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri davanti al Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’appello, da determinarsi a norma dell’art. 11 c.p.p. e dell’art. 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale (art. 8 l. n. 117/1988).

[4] In questo senso rispettivamente Cass., Sez. III, n. 51084/2017, CED 271419 e Cass., Sez. IV, n. 8914/2014, CED 262436.

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